Spoleto, ciò che non si dice
Davanti alle sedie rosse del Caio Melisso, lo storico teatro di Spoleto, sfilano in una scena nuda coloratissimi abiti rimediati: felpe, maglie, tute da mercatino, con qualche giacca-e-cravatta, uno smoking, un pigiamone giallo a righe nere di pile (fa freddo di notte nella commedia, in Russia, nella casa dei Ciliegi), un elegante doppiopetto. Un soffitto illuminato a neon incombe sugli attori, si solleva in momenti più ariosi, si abbassa a rappresentare una spiaggia sul lago; quindi si rialza per calare definitivamente alla fine come ghigliottina quando la casa dei ciliegi sarà venduta con tutti i suoi ricordi.
I debiti non si pagano con i sentimenti
È crudele e struggente Il giardino dei ciliegi di Čechov e lo è ancor di più, con un senso di folle, insano divertimento, nello spettacolo che Leonardo Lidi ha presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Sugella una sua trilogia cechoviana, che esclude Tre sorelle e conclude, con questa messinscena, un cammino iniziato due anni fa con Il Gabbiano, gli attori davanti al lago rappresentato dalla platea e dagli occhi degli spettatori, nei quali loro si rispecchiano, deponendo ogni enfasi e ricercando l’umanità immediata dei personaggi e del testo; proseguito l’anno passato con Zio Vanja, questa volta gli interpreti schierati davanti a un muro che chiude aspirazioni e vita, un altro spettacolo essenziale, veloce, che da subito dà l’idea di noia, di spossatezza, di fallimento, tra piccoli impegni, futili divertimenti, passioni effimere, pulsioni erotiche abortite, che rendono più devastante il male di vivere.
Questo finale Giardino dei ciliegi è uno spettacolo ‘sconsideratamente’ colorato, di costumi e di umori, una commedia tragica o una tragedia comica, come sarebbe piaciuto all’autore, rappresentata da un gruppo di attori consolidato proprio in questo viaggio in tre parti nel mondo del drammaturgo russo, rappresentato anche in forma di maratona il 7 luglio: girerà nelle stagioni di vari teatri sia come lavoro singolo sia come maratona delle tre parti in un’unica giornata, permettendo di apprezzare ricorsi, spostamenti, sovrapposizioni.
Ci sono tante battute, c’è tanto movimento, placido o nervoso, c’è l’infinita varietà della vita; ci sono alcune cadute del goffo personaggio affidato a Massimiliano Speziani, Epichòdov, il contabile, che qui si lancia in arditi passi di tiptap e inciampa in ogni ostacolo che incontra. Ma ci sono anche molti silenzi, sguardi smarriti o profondi, pause, che indicano col non detto un’ansia, l’angoscia per la fine di un mondo, mascherata da una socialità salottiera e stremata, con la figura di Lopàchin, nato contadino e poi arricchitosi, che consiglia di vendere tutto e di lottizzare il giardino dei ciliegi, carico dei nostalgici ricordi d’infanzia dei proprietari.
In fondo vediamo un gruppo di ‘scappati di casa’, sarebbero migranti se non fossero bianchi e occidentali, con vestiti rimediati che rimandano a una condizione di marginalità, di emarginazione, di nuova povertà o di rifiuto delle regole borghesi. Le pause, terribili perché insinuano nello spettatore la sicurezza che tutti i giochi che vede, tutto il colore, siano posticci, sono affidate principalmente a Francesca Mazza, nella parte di Ljubòv’ Andrèevna, la proprietaria, che è fuggita dal podere dopo la morte del marito del figlio e che ha dissipato una fortuna in Europa. Sono rivelazioni d’anima, quelle pause, che scavano nello spettatore. Come scava la sicumera del Lopàchin di Mario Pirrello, insinuante, pronto a indossare l’abito rivelatore e ‘redentore’ del Giuda, di colui che porta a manifestazione e a evidenza un processo inarrestabile. Una specie di capro espiatorio, destinato a raccogliere su di sé ogni frutto del tradimento e ogni maledizione.
Nell’opera di Čechov si mette in scena la rovina economica che travolge le vite, le macina. Al brulichio di immagini, di voci, alla felicità malinconica di ritrovare il vecchio posto, la casa del giardino dei ciliegi, alle battute di quella popolazione che si riunisce di nuovo intorno alla proprietaria, si intrecciano momenti di pausa. Quei silenzi carichi di senso di cui dicevo ma anche di stasi collettiva, di stupore e desiderio di quiete, con tutti in costume distesi al pallido sole davanti alle acque del lago.
Segue una sovraeccitazione incontenibile, una festa, balli su ritmi convulsi e convulsivi, cappellini colorati, un’allegria forzata: siamo in attesa della notizia di come è andata l’asta della proprietà; siamo sul Titanic già colpito dall’iceberg con l’orchestrina che suona mentre l’acqua irrompe nello scafo. Arriverà Lopàchin a gelare: elegante, con champagne: il podere è stato venduto, sarà lottizzato: il compratore è lui. Non più contadinello, ma proprietario, non raccoglierà l’eredità dei ricordi, ma metterà a frutto il valore economico del luogo.
Straziante è l’addio al posto delle memorie, prima che le seghe abbattano gli alberi. Ma anche qui Lidi gioca di controcanto, facendo richiamare in continuazione Ljubov’ dagli altri, mentre si attarda nella melanconia. Mamma! – gridano, e lei continua ad abbandonarsi alla nostalgia. Mamma! – gridano più seccamente, striduli.
Come notavo negli anni scorsi la bellezza di questo affondo in Čechov, reso possibile dalla produzione dello Stabile dell’Umbria, oltre che del Festival dei Due Mondi e dello Stabile di Torino, sta nella delicatezza della mano di Lidi, che non aggiorna ma semplicemente rende fluido il testo di Čechov, mantenendo l’essenziale, tagliando ciò che potrebbe appesantirlo al gusto odierno, rendendolo immediato, moderno, conservandone lo spirito e le parole, mirabilmente tradotte da Fausto Malcovati. E sta negli straordinari attori, solisti di valore resi dal lavoro comune di tre anni un vero ensemble, tutti da nominare e da lodare perché capaci di dare verità e vita ai loro ruoli, piccoli o grandi che siano: Francesca Mazza è una Ljubov’ memorabile, dolorosa, tesa, dissipatrice, sciagurata, incrinata; Giuliana Vigogna è Ànja, la figlia adolescente, stupita, travolta, ‘incantata’; Ilaria Falini è Varja, la figlia adottiva, apparentemente più solida; Orietta Notari regge benissimo la trasformazione del fratello di Ljubov’ in sorella, e come Gàev è leggera, futile, volatile, abbastanza ‘da un’altra parte’; Mario Pirrello è un perfetto, polimorfo villain nel ruolo di Lopàchin; Christian La Rosa, Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo (una strepitosa Šarlòtta en travesti), Massimiliano Speziani, Angela Malfitano, Tino Rossi, Alfonso de Vreese sono incisivi nei loro ruoli, attenti ai dettagli, capaci di scarti continui che conquistano al platea.
I fantasiosi costumi sono di Aurora Diamanti, le scene e le luci di Nicolas Bovey, il suono, delicato e insidioso, di Franco Visioli.
Uffa che barba!
Dal Caio Melisso, di fianco al magnifico Duomo di Spoleto, dove potete ammirare la cappella Eroli con affreschi di Pinturicchio e l’abside decorato da Filippo Lippi, scendendo una scalinata si arriva al Teatrino delle 6, intitolato a Luca Ronconi. È uno spazio sotterraneo, un inferno dove quattro giovani registi emergenti, con il coordinamento di Antonio Latella, ambientano le loro opere con uno stesso cast che impegna bravi allievi del primo anno del biennio di specializzazione dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin. Il progetto di Latella si intitola Uffa che barba! e si interroga su come lo studio sia noia ma anche ricerca profonda, che mira a sfrondare dalle ‘barbe’ l’arte, i testi teatrali, a renderli vivi, necessari.
Ho assistito a due dei quattro spettacoli in programma, Risveglio di primavera di Frank Wedekind, con la regia di Giovanni Ortoleva, e Freaks, liberamente tratto dal film di Tod Browning da Federica Rosellini. Gli altri due titoli sono Quando noi morti ci risvegliamo, di Leonardo Manzan e Rocco Placidi, regia di Leonardo Manzan, e Romeo e Giulietta da Shakespeare, drammaturgia di Linda Dalisi e Paolo Costantini, con la regia di quest’ultimo. Il lavoro di Ortoleva affronta un famoso testo di fine Ottocento che grida contro le convenzioni borghesi, capaci di stritolare il desiderio e la personalità dei giovani. Il regista crea un mondo bambolesco, bambinesco, nel quale subito arriva la ferita del dolore.
Il lavoro di Rosellini è più complesso: con tutta una prima parte in cui scorrono immagini del film di Browning doppiate dal vivo dagli attori e una seconda ‘folle’ e assertiva, contro le convenzioni borghesi della nostra civiltà. La storia è quella di un gruppo di persone con malformazioni varie ridotte a attrazioni di circo, nani, gemelli siamesi, giganti, donne barbute, che si ribellano a una bella trapezista che li disprezza e li deride. Le azioni davanti allo schermo intrecciano rifiuti della morale corrente, scene di sesso, rituali e pulsioni erotiche, di fuga. Il tutto diventa una visione onirica davanti a un presepe formato da neandertaliani, in un mondo che brucia dal calore, con la domanda: che cosa sarebbe stato il nostro presente se i nostri presepi non fossero stati abitati da una Sacra Famiglia di Homines Sapientes? Cosa sarebbe se le regole della società normale fossero diverse o se esplodessero?
Riflessioni da sotterraneo, da cantina, da luogo infero sull’infinito fuoco, non regolamentabile, delle pulsioni.
Davide Enia nello specchio della mafia
In una sala spoglia, con palco a terra e pubblico su una gradinata, un tempo una chiesa, agisce un solo attore, Davide Enia, in una scena nuda, popolata solo da lui e dalla chitarra di Giulio Barocchieri (luci di Paolo Casati, suono di Francesco Vitaliti). Nessuna macchina scenica, se non quella del racconto, che parte da una pozza di sangue e a un’altra pozza di sangue arriva, in un vertiginoso accumularsi di parole, narrate, gridate come vanniate, le palermitane grida di vendita, salmodiate, con voci e frasi deformate nel cunto, che spezza le parole, le contorce nei momenti più drammatici.
Al di sotto di queste voci che trascinano, che fanno pensare, che trasformano il messaggio politico e civile in epos, pronto a entraci dentro e forse a mutarci, che ci fanno come abbracciare l’attore, sta il silenzio della paura, perché, dice l’artista, a Palermo “‘a megghiu parola è chidda ca ‘un si dice”. Autoritratto si intitola lo spettacolo (girerà moltissimo nella prossima stagione, e non perdetelo). Alla fine disegna figure slabbrate di un presente di violenza e timore, di omertà profonda, un autoritratto dei palermitani e di tutti noi, della nostra pavidità e rimozione di fronte al sangue, alla furia del crimine, a quella del denaro che lo muove.
Enia ci porta nei delitti di mafia di Palermo. Ci introduce cantando, modulando grida di vendita di una città fatta di vita di strada, di voci che davanti al sangue hanno imparato troppo a tacere. Ci trascina ricordando: il primo morto ammazzato visto a otto anni, poi il professore di religione del liceo, don Pino Puglisi, soppresso dai clan. Narra la morte di Falcone, il botto che pose fine alla vita e alle investigazioni di Borsellino. Indossa tutti questi fatti che abbiamo appreso da giornali e telegiornali, collocandoli nella sua vita di ragazzo, quaranta, trent’anni fa, rendendo alla cruda cronaca quella cifra personale che rende i suoi spettacoli avvolgenti, indimenticabili, specchio di chi guarda, anche se trattano fatti distanti.
Sono autoritratti dell’autore e della sua città, deformi come le figure smarginate di Francis Bacon, capaci di mettere in moto emozioni profonde. Di innescare una catena di domande in chi guarda. Come si fa a vivere in una città così? Come si fa a restare in silenzio? Cosa che pure tutti fanno per quieto vivere.
Il centro dello spettacolo è la raccapricciante vicenda di Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia. Tenuto crudelmente prigioniero per 778 giorni, alla fine viene sciolto nell’acido fino a che del ragazzino non rimane nulla. “Una storia disumana che si configura come l’apparizione del male, il sacro nella sua declinazione di tenebra” ha detto l’autore.
È un autoritratto di tenebra, appunto, questo. Di tutto il male che si accumula e di cui nelle case non si parla, in una città che tace. È, quello di Enia, un discorso sulla rimozione, sui meccanismi della compiacenza e della nevrosi che induce nelle vite dei palermitani il silenzio su Cosa Nostra. Con una domanda su cosa può fare il teatro, oltre a ricordare.
L’attore racconta i suoi colloqui con tre ex investigatori della procura nazionale antimafia per ricostruire una storia scellerata, per scavare nelle troppe ombre, nei silenzi, nei pianti che non sono diventati reazione. Per specchiarsi nelle pozze di sangue e scoprire che là vedi riflesso il tuo autoritratto. Uno spettacolo trascinante. Bellissimo.
Il grande protagonista di queste opere, oltre al silenzio, al non detto, è il teatro. Il luogo dove tutto è possibile, come tesi, come ipotesi, ma anche come vita. Dove si può fingere o si possono mettere in scena rituali, di conversazione, di relazione, ma anche criminali, e sai che tutto è finto, seppellito sotto parrucche e costumi colorati eppure ti fa risaltare nudo, come qualcosa che assomiglia alla verità, quella di cui tanto discutiamo, che tanto poco tocchiamo, forse solo per qualche momento, per rivelazione, magari nella scintilla scoccata da un attore o da un gruppo di attori verso la pigrizia degli sguardi delle vite quotidiane.
L’ultima fotografia raffigura un altro momento di Autoritratto, di e con Davide Enia, con Giulio Barocchieri alla chitarra, ph. Andrea Veroni (courtesy Festival dei due mondi di Spoleto).