Fondazione Prada, Milano / MilanoTV70: Francesco Vezzoli guarda la RAI
È stato come accomodarsi nel salotto del signor Francesco Vezzoli (Brescia, 1971), di professione artista contemporaneo di fama internazionale, mentre guarda la televisione sintonizzata sui programmi Rai degli anni Settanta, così traumatici per la storia d'Italia; eppure, allora, la rete pubblica aveva ancora tutto da dire, tanto da raccontare e un ampio margine di sperimentazione. Se, oltre alla stampa, con i nuovi mezzi di comunicazione di massa – la radio prima, poi la televisione – si porta a compimento quel processo di unificazione linguistica dell'Italia, unita solo territorialmente dal1861: fino ad allora, i dialetti regionali non permettevano una reale comunicazione tra gli Italiani che non appartenevano alle élite culturali. Da quando la televisione è entrata nelle nostre case,questo «focolare elettronico» ha avuto, nel tempo, più o meno consapevolmente, un ruolo paideutico, educativo, financo normativo. È stato – ed è tuttora – inevitabile, per gli spettatori, l'audience!, come per gli studiosi, i critici e gli intellettuali, chiedersi se la televisione sia stata una cattiva maestra (in termini di incontrollato tempo assorbito, modelli sociali di comportamento e distorsione dei dibattiti pubblici), o al contrario, buona (grazie soprattutto ad alcune serie televisive che, in quanto a dispositivi narrativi e produzioni intelligenti, quando non addirittura ingegnose e appassionanti, possono competere con grandi romanzi), tanto da svolgere egregiamente il compito che era prerogativa esclusiva di libri e cinema.
Il progetto è stato interamente concepito dall'artista, co-curato da Cristiana Perrella, e sviluppato in collaborazione con la Rai. Dall'archivio Rai Teche, infatti, provengono tutti i materiali esposti in ben cinque ambienti della Fondazione – la galleria Nord, il Podium+1, il Podium, la galleria Sud e il Cinema – ognuno di questi è predisposto a raccontare diversi aspetti della produzione/programmazione televisiva di quegli anni e, di conseguenza, della società contemporanea.
Si tratta di una mostra articolata – «densa e rischiosa», ma anche «surreale e divertente», a detta del suo artefice – impressionante per la quantità di documenti visivi raccolti e conservati ad memoriam. In un certo senso, Vezzoli si fa pescatore di perle – come Hanna Arendt definiva il Benjamin dei passages – e, preso da un certo furore, una specie diversa di mal d'archivio, cerca, rovista, scandaglia ed esplora i fondali di questo mar spettacolare. Il grande tesoro che trova, ce lo offre interpretato a modo suo, attraverso il racconto – tra l'esperienza individuale del passato, della propria infanzia, e la mitologia collettiva – del rapporto dialettico della televisione con quegli anni, sospesi tra apollineo e dionisiaco, tra piombo e milleluci: la programmazione della Rai tra il 1968 e l'inizio degli anni Ottanta, appena prima dell'avvento delle emittenti private concorrenti, è «un evento che non si ripete», momento glorioso, finale. È soprattutto un periodo storico molto violento; le immagini di cronaca entrano prepotentemente nelle case proprio attraverso lo schermo televisivo, com'era successo anni prima negli Stati Uniti, durante la Guerra del Vietnam: immagini dolenti del mondo e del Paese in piena guerra civile irrompono senza riguardo nel luogo ritenuto più sicuro, magari all'ora di cena, allo spezzare del pane quotidiano.
Eppure, la televisione pubblica italiana vive senza dubbio un momento felicissimo e, come si è detto, irripetibile – dunque finale – se si considerano in primis le politiche produttive, caratterizzate da quella libertà di sperimentare una varietà di registri stilistici e linguistici contrastanti, persino diametralmente opposti tra loro, quando cronaca nera e cabaret trovano una conciliazione. Dichiara Vezzoli: «a uno sguardo contemporaneo, la produzione televisiva degli anni '70 rivela chiaramente il suo carattere anarchico e rivoluzionario» mentre, al contempo, ripensa al proprio ruolo pedagogico, puntando alla qualità delle collaborazioni.
Il livello culturale dei format televisivi è inarrivabile, inarrestabile la spinta verso un rinnovamento radicale: basti pensare al ruolo di primissimo piano affidato a scrittori, artisti e intellettuali e a grandi registi del cinema italiano come Michelangelo Antonioni (Chung Kuo, Cina) e i fratelli Taviani (Padre Padrone*), Bernardo Bertolucci (La strategia del ragno), Federico Fellini (I clowns), Giuliano Montaldo (Circuito chiuso), Francesco Rosi ed Ermanno Olmi (L'albero degli zoccoli*), Liliana Cavani (Francesco), Pier Paolo Pasolini e Luca Ronconi (L'Orlando furioso): tutti autori per i quali la televisione diventava una vera e propria palestra di scrittura: tra le produzioni più importanti, divenute storiche, figurano anche due palme d'oro* 1977 e 1978.
Il percorso si snoda essenzialmente indagando i rapporti della televisione con tre macro categorie: arte, politica e spettacolo; queste tematiche sono legate tra loro da una relazione visiva e concettuale, se pur mantengono anche una propria autonomia e finitura: tre percorsi compiuti, che, insieme, costituiscono armonicamente un disegno più grande e complesso. Parallelamente, esiste un'altra linea di lettura, duplice e complementare: maschile e femminile. In sintesi, si può dire che tutta la mostra è un tentativo di conciliazione degli opposti, di sintesi dialettica di approcci apparentemente contrastanti.
Ciò si manifesta anche a partire dall'allestimento, assolutamente immersivo, insolito e audace, curato dallo studio di design, comunicazione e architettura M/M (Paris), che gioca à la manière de Perec con le lettere del titolo e sull'accostamento di forme tipografiche geometriche, del tutto simili a moderni totem – segni simbolici definiti da ampie campiture di blu, verde e rosso, accostate al reticolato bianco e nero dei cruciverba della Settimana Enigmistica, disseminato di numeri – come diventati arredi a richiamare gli interni dell'epoca. Vezzoli dichiara a più riprese di essersi molto divertito a pensare e realizzare questo progetto, a tratti persino surreale, che considera «un'indagine vera sul costume contemporaneo e sulle sue radici, con un senso critico sull'oggi», proprio perché, tra tutti i media, questo sembra lo specchio più fedele della società di allora, la lente di ingrandimento che ci permette di osservarla e, forse, comprenderla meglio. Insomma, dichiara Vezzoli: «in quel momento per me la televisione era un Giano a due volti: da una parte c'era la cronaca della guerra civile, ma allo stesso tempo era un momento di svago [...] la televisione sembrava l'unico luogo dove trovare sia la pura verità, sia il suo antidoto». Questi conflitti, racconta l'artista, istituiscono la cornice della sua infanzia e adolescenza, e inevitabilmente diventano anche cornice e metafora dell'intera mostra, da guardare attraverso i suoi occhi giovani, come «estensione della sua stessa vita».
Attraversiamo così i diversi campi di indagine e i molteplici piani di lettura della mostra, iniziando dal principio, dalla galleria Nord: qui, viene interrogato il rapporto tra televisione e arte figurativa. Non si tratta di una banale contaminazione tra cultura alta e bassa, ma del modo assolutamente innovativo attraverso cui la Rai ripensa di fatto il suo ruolo pedagogico, esigendo uno standard qualitativo sempre più alto.
Questa sezione è di particolare interesse estetico: si guarda alla televisione pubblica italiana come vero e proprio spazio di intervento artistico. In quegli anni, l'arte contemporanea insiste molto sulla linea performativa e video; ben si presta, allora, al dialogo con il medium televisivo e offre le premesse per un intervento partecipativo, che si spinge ben oltre un contributo (comunque importantissimo) come décor di scena o come approfondimento specialistico d'intento divulgativo: la ricerca e la riflessione sull'arte penetra le trame televisive, come intrecciandosi alla programmazione ordinaria, offrendo così uno sguardo prospettico da diverse angolazioni, quello delle (molte) storie dell'arte e dei programmi culturali televisivi.
In questo primo momento di riflessione, ci accoglie, ergendosi a parete, una installazione di nove opere, variazioni sul tema dello schermo, che modifica definitivamente lo sguardo di uno spettatore, firmata da Mario Schifano, Paesaggio TV (1970).
Soltanto dopo averla superata, si accede a una selva oscura e ci si immerge in uno spazio abitato da voci e immagini fantasmatiche – (no, non si tratta della haunted house che ospita Louise Bourgeois). Bisogna muoversi lentamente, adattarsi all'alternanza tra luce e buio, materiale e immateriale: frammenti di diversi programmi mandati in onda sulla prima e seconda rete, anche in prima serata, attestano il modus operandi dei più grandi artisti italiani del Novecento, ospiti protagonisti di veri e propri documenti audiovisivi del loro pensiero in azione, sono proiettati al centro della sala, lungo la galleria.
Vediamo (per alcuni sarà forse un ri-guardare;in ogni caso, del tutto nuovo) proiettati frammenti di alcuni programmi, i volti e le mani dei protagonisti dell'arte contemporanea che si muovono e lavorano, ascoltiamo le loro voci raccontare e rispondere a domande tecniche o più curiose, ciascuno con il proprio modo di essere uomo e artista, e personaggio pubblico.
Donne, però, in questa stanza non se ne vedono ancora.
D'un tratto, la luce si accende e tutto scompare. Resta solo il silenzio e qualche minuto a disposizione per osservare un esemplare pittorico esposto di fronte al video, come un dialogo diretto, senza soluzione di continuità tra l'artista, la sua immagine in movimento e la sua opera materiale. Due, credo, sono i casi di maggior interesse per far proprio lo sguardo che la televisione volgeva all'arte.
In primis, una puntata (23 novembre 1975) di Come nasce un'opera d'arte, programma scritto e diretto da Franco Simongini, dedicata a Giorgio De Chirico, Il sole sul cavalletto. Si tratta di lungo e attento sguardo documentario, che entra nello studio del pittore per raccontarne il lavoro – o, come in questo caso – per osservare la realizzazione di un quadro in tempo reale – un tempo televisivo – tempo oggi improponibile, anzi, inimmaginabile: un esperimento «persino perturbante, nel corto circuito temporale che attiva».
De Chirico, concentratissimo e intento a dipingere un grande sole giallo, dialoga con la voce fuori campo e racconta di come alla luce estiva preferisca le notti d'inverno, «le giornate buie, quando piove e il cielo è coperto», tipiche dei paesaggi del nord, ma «per un dipinto va bene anche il sole, è decorativo»; la città alla campagna: «la vendemmia non l'ho mai vista»; del suo amor proprio ferito qualora, incontrandolo per strada, nessuno si fermi per domandare un autografo; delle sue automobili (una Mercedes e una Fiat 1500) che guida alla giusta velocità. Quella delle sue pennellate. Il risultato è alle nostre spalle, l'olio che vediamo compiersi è esposto tra le opere che fanno da controcanto ai rispettivi video, in un infinito intrattenimento tra il dentro e il fuori dello schermo e della cornice.
Chi abbia un po' di confidenza con la storia e la critica dell'arte contemporanea, potrebbe trovare audace e acuto – come sottolinea Klaus Biesenbach nella sua intervista –, l'accostamento di due giganti come Renato Guttuso, pittore ufficiale del partito comunista e amante di un'affascinate nuvola bionda (così chiamava Marta Marzotto), legata a uno dei più importanti industriali della destra e Alberto Burri, medico, membro del partito fascista, chiamato alle armi in Tunisia e prigioniero di guerra a Hereford in Texas, nel 1943: da quel momento si dedicò per sempre alla pittura.
Il Rosso e il Nero dell'arte italiana. Ritroviamo il primo nella puntata Natura morta (in Come nasce..., 20 febbraio 1975, qualche minuto qui); il secondo in L'avventura della ricerca (Artisti oggi, un altro programma curato da Simongini). Le due opere che 'fronteggiano' le rispettive narrazioni sono la grande, misteriosa e felpata Visita della sera (1980; GNAM, Roma) e Cellotex Grande B (1975; coll. Prada).
Se Gianfranco Baruchello, in Educazione Artistica di Mario Chiari spiega ai bambini il collage, come Tagliare e comporre (11 marzo 1970), Emidio Greco gira il documentario Niente da vedere, niente da nascondere (1978) su Alighiero Boetti che silenziosamente, senza dire una sola parola, porta il suo discorso artistico in televisione attraverso la sola gestualità pittorica. Dopo un incontro con Emilio Vedova, Michelangelo Pistoletto descrive la sua teoria estetica dei quadri specchianti, per Vidikon. Settimanale d'arte (1979), mentre Vincenzo Agnetti spiega, in modo quasi performativo, il suo intervento alla Biennale del 1976.
Più in là, si situa in un centro ideale, l'installazione Apoteosi di Omero (1970-71) di Giulio Paolini, artista e collaboratore Rai come scenografo, per diversi spettacoli teatrali e televisivi: 32 fotografie e documenti scritti a macchina sono disposti circolarmente su altrettanti leggii, avvolti dal sonoro di tre grandi schermi che proiettano adattamenti pensati e prodotti per un uso più creativo che informativo del mezzo televisivo, come Finestra in Racconti italiani del '900 di Massimo Bontempelli, l'ultima ripetizione di Nora Helmer in Casa di bambola di Ibsen e La fantastica storia di Don Chisciotte e del suo scudiero Sancio Panza, inventata da Cervantes, ricostruita e rappresentata in uno studio televisivo da una compagnia di attori e musici con Ronzinante e l'asino, animali veri (1970) di Lerici-Quartucci. Infine, uno spazio dedicato ai programmi sperimentali per i più piccoli e i ragazzi, con Fabio Mauri ed Eugenio Carmi.
Risalendo il Podium+1, si può notare immediatamente come l'allestimento dello spazio espositivo – un corridoio scuro e opprimente, con alcune insenature – sia anche un dispositivo di rappresentazione efficacissimo, perfettamente adeguato a ciò che presenta, con aderente corrispondenza percettiva di forma e contenuto. In questo secondo momento, Vezzoli indagala relazione tra televisione e politica, e in particolare come questa venga comunicata dal principale organo di informazione televisivo, erede, in certo senso dei cinegiornali luce: le più importanti edizioni dei telegiornali, quelle della sera. I conduttori e gli inviati – ancora, non a caso, tutti uomini – annunciano fatti di cronaca che si sono verificati tra il 1969 e il 1980, un periodo buio e profondo come la sala: sui piccoli schermi scorrono in loop una mirata selezione di estratti in bianco e nero delle immagini più tragiche della storia nazionale (immagini diventate icone dolenti di un'Italia impaurita e fragile), ogni postazione video è dotata di cuffie per isolare il sonoro ossessivo dei tg che, altrimenti, si confonde in un unico brusio assordante e angoscioso.
Ecco ripetersi, ancora, le notizie delle stragi di Piazza Fontana a Milano, di Piazza della Loggia a Brescia e della Stazione di Bologna, della morte dell'editore Giangiacomo Feltrinelli, dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini (delle blande, incerte indagini) e quello di Vittorio Bachelet, dell'uccisione di Walter Tobagi, degli attentati ai giornalisti Montanelli, Bruno e Rossi, senza naturalmente dimenticare il rapimento e l'esecuzione di Aldo Moro. A questo proposito, Perrella ricorda, nel suo testo, una dichiarazione di Bianca Maria Piccinino, la prima donna del tg: «Stavo facendo il tg delle 13 e improvvisamente Bruno Vespa stravolto, mi spinge via dal mio posto e annuncia il rapimento di Moro. Avrebbe semplicemente potuto farmi avere la notizia, ma una donna, poteva mai darla?».
In apertura e in chiusura di questo capitolo dedicato alla ferita politica, troviamo due opere che investono le possibilità del linguaggio: Non capiterà mai più, 12 collage di Nanni Balestrini, e Le Mani (1973) di Ketty La Rocca, un video realizzato per la trasmissione Nuovi Alfabeti, dedicata ai non udenti, di cui poi diventa anche sigla. Finalmente, una donna.
Eppure, queste mani sono di un uomo. Si muovono nello spazio, le dita a tratti s'intrecciano e sembrano unirsi in preghiera: in questo modo ci viene indicato il terzo percorso, che conduce, discendendo, alla base del Podium.
L'ambiente si trasforma, si tinge di rosso, è più caldo e avvolgente. Le voci che ora si sentono sono tutte femminili: sembra un coro tragico che leva la voce all'unisono per rivendicare i propri diritti.
La politica del terrore cede il passo al movimento di liberazione femminista, che vediamo emergere, come un'onda travolgente, dalle grandi proiezioni a tutta una parete, sul fondo drappeggiato, di materiali di cronaca e documentari di diverse manifestazioni e trasmissioni che segnano una svolta epocale nella storia dei palinsesti Rai: nella seconda metà degli anni '70, la seconda rete lascia sempre più spazio a temi inediti o tabu, sicuramente nevralgici, non solo per la televisione, ma soprattutto per la società italiana di allora, come la trasmissione Si dice donna (77-82) e il filmato documentario – oggi un cult dei cinéclub – di un Processo per stupro a Latina nel 1979. L'avvocato Tina Lagostena Bassi, difensore di parte civile (e di Donatella Colasanti, vittima sopravvissuta al Massacro del Circeo), commenta immagini e interventi scioccanti, mostrando tutta la violenza, anche e soprattutto verbale, di mentalità e di pensiero giudicante, cui viene sottoposta la vittima. La violenza contestata, non è, dunque, unicamente sessuale, ma quella che deflagra ogni volta che il più forte umilia il più debole.
Molte battaglie per il progresso sociale e civile delle donne sono state portate avanti su diversi fronti, che riguardano principalmente il diritto di lavoro e di famiglia: per la tutela delle madri lavoratrici, il riconoscimento della maternità e l'istituzione degli asili nido, come per la rivendicazione dell'importanza del lavoro extra-domestico per la realizzazione personale. Si pensi alla legge Anselmi del 1977, che impose il veto alle discriminazioni di accesso all'impiego su base sessuale, come per l'avanzamento di carriera e la parità del riconoscimento economico; e ancora ai referendum abrogativi sul divorzio, nel maggio 1974 e di alcune norme della Legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza, quattro anni dopo.
Mentre osservo e ascolto, penso che da allora non sono poi cambiate molte cose.
A far da controcanto a questo fermento civile e sociale tutto femminile, in campo artistico, l'unica donna capace di imporsi è Carla Accardi, i cui lavori volumetrici – numerosi, celebri Rotoli colorati (giallo, nero, rosa, rosa-fluoro e verdenero...), tre Grandi Trasparenti (1975-76), due strutture abitabili – la Tenda (1965-66) e la Casa Labirinto (su un disegno del '70) – che rimandano all'idea di permeabilità degli spazi, di relazione insolubile tra esteriorità e interiorità, tra la vita nel mondo, là fuori e una vita interiore tutta da coltivare, abitano armonicamente la grande sala, che assume le connotazioni di una scena teatrale.
La curatrice fa notare quanto lo spettacolo, il mondo dell'entertainment, sia considerato il territorio entro il quale la donna sappia meglio muoversi, perché lascia al margine l'opinione ed esclude oziosi intellettualismi, ma che, «proprio grazie al suo 'disimpegno', offre paradossalmente alle donne un campo d'azione più libero».
Siamo ormai in galleria Sud, dedicata allo spettacolo di varietà, alla tv delle donne.
Il primo incontro è con La spia ottica – Ovvero, la mia camera da letto (1968, 2017) di Giosetta Fioroni, raccontata a catalogo nell'intervista dell'artista con H.U. Obrist: Una donna, sola, che si annoia. Si tratta del re-enactement, dopo quasi 50 anni, di una performance del 1968 alla storica galleria La Tartaruga di Roma: lo spettatore osserva – non visto, dunque da una prospettiva privilegiata – attraverso la lente di uno spioncino, una donna sola nella sua camera da letto, muoversi, compiere azioni quotidiane come leggere, scrivere, telefonare, spogliarsi, pettinarsi, assopirsi e risvegliarsi.
Secondo Vezzoli, questo contesto è profondamente rituale: «la televisione degli anni Settanta produceva riti e, di conseguenza, miti assoluti e duraturi che ancora oggi, riproposti in questa mostra, possono ispirare scelte non convenzionali».
La politica del tempo, di qualunque ideologia, era davvero partecipativa, e necessario impegnarsi sul campo, in piazza, tra la gente; non intralciava ancora le scelte dei palinsesti, e permetteva persino alla televisione di offrire «visioni anarchiche e imprevedibili autorizzate», tanto da indurre Vezzoli a domandarsi, senza retorica o ironia, chi potesse mai aver firmato la messa in onda di Stryx (1978, interrotta) con Amanda Lear (qui) e Grace Jones in prima serata o di Ilona Staller, in arte Cicciolina, come interprete protagonista di Cappuccetto Rosso.[Davvero? Sì]
Senza dubbio, la situazione appare paradossale. Certo è che in questa rassegna non può mancare Milleluci, il leggendario spettacolo di varietà musicale, co-condotto da una splendida Mina e Raffaella Carrà, trasmesso nel 1974 sul Programma Nazionale del sabato sera, per otto settimane; in mostra c'è una clip con le gemelle Kessler che cantano Che cosa (piacerà al pubblico maschile) per festeggiare il ventennale della tivvù.
In questa sala, alcuni lavori di Tommaso Binga come il Test per un critico e la Donna in scatola (entrambi del 1972), Mani per una parabola del 1973 e L'alfabetiere murale del 1976, insieme a 41 fotografie della serie Travestiti di Lisetta Carmi, dialogano con le proiezioni che investono anche le componenti geometriche dell'allestimento e stesse opere d'arte.
I filmati tratti da Sotto il divano e C'era due volte, si relazionano, invece, prevalentemente con immagini fotografiche, di donne – autrici e soggetti: in un angolo si trovala piccola serie (con un titolo di lacaniana memoria) Jouissance di Paola Mattioli, filosofa di formazione, che studia, attraverso questi 7+1 piccoli ritratti, la rappresentazione della donna proposta dai magazine pornografici – destinati ad un pubblico unicamente maschile. Inevitabilmente, la rappresentazione risulta forzata, finta, quasi maldestra; non c'è alcuna possibilità di desiderio in quei corpi, nessun godimento attraversa e illumina quei volti. Un ultimo scatto, più tardo, cattura un uomo che esce da un cinema porno, voltandosi indietro, come preoccupato d'esser stato visto trasgredire, pervertire. Ci sono anche 28 stampe vintage di Elisabetta Catalano, tutti ritratti delle personalità femminili più significative in ambito culturale, tra cui figurano Giosetta Fioroni e Talitha Getty, Monica Vitti, Florinda Bolkan, Dacia Maraini, Mariangela Melato, Inge Feltrinelli, Natalia Ginsburg, Marta Marzotto e Lina Wertmuller.
Simbolo, forse, di queste rivendicazioni femminili, la scivolosa scultura in resina Mount of Venus and Beyond (1971) di Suzanne Santoro; le 16 fotografie con interventi tipografici e cancellature manuali, sono variazioni sul versetto evangelico Luca 2, 49 sono di Libera Mazzoleni.
Applausi. La prova d'artista di Gianni Pettena è un invito che consegna lo spettatore-fruitore (della televisione e della mostra, ad un tempo) alla fine di questo lungo e articolato viaggio, contraddistinto da un'incredibile pluralità prospettica: tutto ciò ha «rilevanza intellettuale e politica», basti pensare alla moltitudine di spettatori seduti davanti a questa scatola magica.
Il cerchio si chiude al Cinema con un'opera inedita di Vezzoli, Trilogia della Rai, 2017: si tratta di una «una verifica incerta della memoria», grazie al montaggio rapido di materiali televisivi d'archivio, molto diversi tra loro per genere, stile e registro linguistico, l'artista riflette e comunica sé stesso attraverso produzioni altrui che provengono dal passato, ma significano nel presente proprio grazie al suo intervento, che ridisegna così un ritratto identitario sincretico (e in un certo senso riconciliato) del paese, attraverso ciò che di più diverso ha prodotto il medium televisivo. Vezzoli considera la mostra stessa, contenitore di moltitudini, in tutta la sua interezza, la sua grande opera d'arte, l'evento.
La mostra è accompagnata da una pubblicazione illustrata bilingue (inglese e italiano) edita naturalmente da Fondazione Prada, molto curata per quanto riguarda la bibliografia e l'apparato iconografico. A una nota dello stesso Vezzoli, a cui segue un'intervista con Klaus Biesenbach (MOMA PS1), e all'introduzione della curatrice, seguono numerosi contributi di teorici e critici d’arte, italiani e internazionali, tra cui Nicolas Bourriaud (Palais de Tokyo), Carolyn Christov-Bakargiev (GAM – Castello di Rivoli), Germano Celant, Nicholas Cullinan (National Portrait Gallery of London), Hans Ulrich Obrist in dialogo con Giosetta Fioroni, Marco Senaldi (cfr. arte e televisione), Letizia Ragaglia (Museion di Bolzano) e Linda Yablonsky, oltre a quelli di alcuni studiosi e professionisti della televisione, come Lucia Annunziata, Umberto Eco e Carlo Freccero. Di Marco Senaldi, oltre a un cross-mediale contributo testuale, si segnala la consulenza scientifica insieme a quella di Massimo Bernardini. A questa pubblicazione fanno riferimento la quasi totalità delle citazioni riportate nel testo.