Una nuova edizione arricchita / Storie e riprese di Il deserto dei Tartari
Deserto
Per Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari non era un romanzo. O meglio, non era soltanto la storia del tenente Giovanni Drogo, l’intrecciarsi di tanti destini, di silenzi, di parole, dell’inquieto sguardo sulla sospensione del tempo da vivere, che lo avrebbero portato a diventare famoso nel mondo. No, la sua opera era il libro di tutta una vita. Un gigantesco arazzo che avrebbe potuto montare e smontare all’infinito. Anche se il primo lettore lo aveva bocciato senza troppi ripensamenti.
Era andata così: Leo Longanesi, chiamato da Rizzoli a dirigere la nuova collana Il Sofà delle Muse, aveva chiesto al trentenne Dino Buzzati, giornalista del “Corriere della Sera”, di fargli leggere il manoscritto del Deserto. Poi, lo aveva passato a un suo critico di fiducia. Ma il responso era stato durissimo: quel libro non valeva nulla. Per fortuna, il fondatore di “L’Italiano”, “Omnibus” e “Il Borghese” era un bastian contrario per natura e per vocazione. Così, aveva deciso di pubblicare il romanzo. Cambiandogli soltanto il titolo: non più “La fortezza” o “Il messaggio dal nord”, ma “Il deserto dei Tartari”
Romanzo di una vita, diceva Buzzati, e aveva ragione. Perché a leggerlo attentamente, ancora oggi, il Deserto rivela di essere costruito sulle fondamenta stesse del suo essere uomo e scrittore. Contiene tutti i temi che avrebbero nutrito i libri pubblicati dopo il 1940: da Un amore a Poema a fumetti, dai Sessanta racconti premiati con lo Strega nel 1958 a La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Ci sono, infatti, il rapporto con il tempo, il mistero dell’esistenza, la solitudine, il fascino del mondo militare, il richiamo di un ordine e di una disciplina imprescindibili, la presenza di un nemico invisibile, il dialogo con la Morte, l’amore per la montagna. La rassegnazione a veder sfumare i propri sogni in un presente che sembra potersi dilatare all’infinito, senza mai diventare futuro.
“Il Deserto avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della morte”, confessava Buzzati in un’intervista del 1966. Del resto, Pier Paolo Pasolini mentre metteva mano alla sua versione del Decameron, prima di presentarlo al pubblico il 25 Agosto del 1971, si chiedeva che cosa spingesse un artista a realizzare un’opera, dal momento che è molto meglio immaginarla.
Buzzati non aveva mai considerato il Deserto un romanzo immutabile. Anzi, fin dall’inizio si era messo a immaginare trame parallele a quella pubblicata, poi, da Rizzoli il 9 giugno del 1940, il giorno prima dell’entrata in guerra dell’Italia annunciata da Benito Mussolini dal balcone di piazza Venezia a Roma. Tanto da stravolgere lui stesso il finale del libro in un trattamento per un film che avrebbe dovuto portare la firma di Claude Sautet, il regista francese di Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre, Un cuore in inverno, Nelly e Mr. Arnaldo, morto nel 2000.
Adesso, quel percorso di immaginazione multipla che Buzzati dedicò al suo Deserto lo si può ricostruire grazie a una nuova edizione del romanzo. Non la solita ristampa, perché la versione di Il deserto dei Tartari per gli Oscar Mondadori (pagg.297, euro 14), curata dal giornalista e scrittore Lorenzo Viganò con la consueta bravura e passione, è una piccola miniera di suggestioni inedite. Dal momento che sottopone ai lettori non solo gli appunti che accompagnarono Buzzati nel percorso di ideazione del suo capolavoro. Ma anche un trattamento per il cinema da lui stesso curato. Quarantasei cartelle scritte a macchina nel 1962, che si chiudono con uno schizzo della Fortezza Bastiani. E una frase che vale più di una dichiarazione di poetica: “Sono arrivati i Tartari? Sì sono arrivati”.
Già mentre scriveva il Deserto, Buzzati aveva pensato per Giovanni Drogo un destino del tutto diverso. Si rendeva conto, infatti, che la partita a scacchi del suo tenente non poteva esaurirsi con la partenza dalla Fortezza a bordo di una carrozza, ormai vecchio e malato, proprio mentre l’ombra dei Tartari ingigantiva tra la polvere del Deserto. Anche perché, a quella chiusura del romanzo lo scrittore affidava un messaggio forte e chiaro. Concedeva, infatti, al personaggio una fuga dall’immobile presente, dalla sua esistenza da sepolto vivo nel vecchio avamposto militare, per ritornare a un’esistenza normale. Seppure per poco, perché lui era ormai arrivato alla soglia estrema dei suoi giorni terreni. E poteva confrontarsi, finalmente, con l’oscura forza che recide i fili della vita quando è arrivato il giusto tempo: la Morte. Presenza costante, ossessiva, in tantissime storie buzzatiane. Ombra inquieta e dispotica, ma anche caritatevole nel suo intento di donare un finale glorioso a esistenze immote.
Lo stesso Buzzati, insomma, aveva ipotizzato un finale alternativo al suo romanzo. Togliendo al destino di Giovanni Drogo l’aura di decadente eroismo che avrà nella chiusura del Deserto. Lo aveva condannato a lasciare la Fortezza Bastiani dopo aver percorso i gradi della carriera militare, senza mai vedere nemmeno l’ombra dei Tartari. In quella variante, Buzzati immaginava il tenente costretto ad andarsene, a fare ritorno in città, dove più nessuno l’aspettava. Chiudendo il cerchio di un’iniziazione al vivere del tutto priva di gloria.
Eppure, la storia di Giovanni Drogo era tutt’altro che definita. Anche perché il cinema reclamava il diritto di raccontarla sul grande schermo. Ci avevano provato in tanti, dal grande Michelangelo Antonioni a uno dei bellissimi del cinema come Alain Delon; dal neorealista Vittorio Cottafavi a Jacques Deray. Ma anche David Lean, Georges Franju e Pierre Schoendoerffer. Nel 1955, Vittorio Gassman aveva scritto una lettera a Buzzati chiedendogli un incontro per illustrare il proprio progetto. Di ritorno dagli Stati Uniti, dove aveva sciolto i vincoli che lo legavano alla Metro Goldwyn Mayer, il Mattatore era pronto a confrontarsi con il romanzo, di cui si dichiarava “un lettore entusiasta”. Diceva di sentire il progetto vicino al suo modo di lavorare e rassicurava lo scrittore “che potrebbe costituire materiale per uno splendido film”. Su quell’idea era pronto a scommettere un produttore rampante come Carlo Ponti. Anche se, poi, si sarebbe tirato indietro in fretta perché “incerto circa un esito spettacolare e, in parole povere, spaventato dalla difficoltà dell’impresa”.
Insomma, sembrava proprio che nessuno trovasse il coraggio di confrontarsi con il Deserto. Né Mauro Morassi, né Franco Brusati e nemmeno l’outsider triestina Anna Gruber, nipote del giornalista e scrittore Silvio Benco che sul “Piccolo della Sera” del 25 marzo 1943 aveva recensito con grande trasporto alcune opere dell’autore nato a San Pellegrino di Belluno: “Ivi giungeva al suo punto estremo quella esaltazione della solitudine, di una vita allontanata dai viventi e sottratta alla nozione del tempo, che è una delle note individuali più caratteristiche del Buzzati e già si afferma nei suoi primi romanzi”. Atmosfere che ritroveremo, un decennio più tardi, in un libro dimenticato troppo in fretta: La Riva delle Sirti di Julien Gracq (riproposto nel 2017 da L’Orma editore nella traduzione di Mario Bonfantini), ambientato nello staterello immaginario dell’Orsenna. Sempre pronto a una guerra, rinviata nel tempo, con il misterioso, selvaggio e aggressivo confinante Farghestan.
Alla fine, sarebbe arrivato Valerio Zurlini a trasformare in immagini il romanzo: nel 1976, quattro anni dopo la morte di Buzzati. Ma il regista di La ragazza con la valigia, Cronaca familiare, La prima notte di quiete, si troverà a percorrere una traiettoria piuttosto tortuosa. Dal momento che, all’inizio, gli sembrava difficile individuare una via personale per trasmutare il romanzo in film. Poi, saranno gli sceneggiatori francesi André G. Brunelin e Jean Louis Bertucelli a far notare al cineasta quanto la compagine di militari rinchiusi nella Fortezza Bastiani faccia pensare a una confraternita di mistici. Templari in divisa, pronti a immolarsi per il proprio credo. Ma anche ufficiali Austroungarici, intestarditi a salvare l’onore militare mentre, attorno a loro, l’Impero andava inabissandosi nella palude della Storia.
In un’intervista a Franca Faldini e Goffredo Fofi, pubblicata nel volume Il cinema italiano d’oggi (1970-1984) raccontato dai suoi protagonisti (Mondadori 1984) Zurlini ammetteva: “La vicenda del Deserto non mi ha interessato finché è rimasta legata a quella volontà di poesia che c’era nel libro di Buzzati. Quando invece nella sceneggiatura di André Brunelin si è portato l’accento sulla comunità di templari di fronte alla loro spiritualità, al loro fallimento, al problema della morte, allora mi ha immediatamente entusiasmato”.
Diceva il regista Vittorio Taviani che “nel rapporto tra la letteratura e il cinema ogni linguaggio ha una sua autonomia: il linguaggio usato dal regista deve scomporre tutta la materia che c’era nel libro e ricomporla nel film in una maniera tale che anche il senso si modifica”. È esattamente quello che ha fatto Zurlini, immaginando alcuni “tradimenti” necessari e appropriati al romanzo, realizzando un film che viene citato spesso come sinergia intelligente tra letteratura e cinema. E non solo per il suo cast stellare, che poteva contare su attori del calibro di Jacques Perrin e Vittorio Gassman, Philippe Noiret e Fernando Rey, Jean Louis Trintignant e Francisco Rabal, Max von Sydow e Laurent Terzieff.
In ogni caso, il progetto che Buzzati riteneva più affidabile era quello legato al nome del regista parigino Claude Sautet, spalleggiato dal produttore di origine greca Moris Ergas. Per lui, Dino si mise alla macchina da scrivere, pronto a creare un trattamento cinematografico del Deserto. E, ancora una volta, non riuscì a resistere al desiderio di immaginare un destino diverso per Giovanni Drogo. Intuendo, da autore, che il cinema aveva bisogno di emozioni forti. Di scene ad effetto. Di un linguaggio visivo del tutto autonomo da quello della letteratura.
Così, racconta Lorenzo Viganò nel suo saggio “Quasi un’autobiografia” inserito alla fine del volume mondadoriano, sarà il colonnello Filimore ad ammalarsi, salire in carrozza e raggiungere la locanda, dove probabilmente morirà. “Mentre Drogo, che lo ha accompagnato alla locanda e sotto le insistenze del colonnello è tornato alla Fortezza per dare ‘almeno lui’ un senso alla vita trascorsa, muore cadendo ‘in una specie di profondo pozzo’ dopo essersi avventurato ‘per fare più presto’ su una vecchia scala che si rompe. Nell’eccitazione dell’imminente guerra, nessuno lo vede, nessuno si accorge dell’accaduto”.
Ma non basta. Perché Buzzati inserisce altri episodi, nel trattamento per il cinema, mai entrati nella trama del Deserto. Come la solenne cerimonia all’Accademia Militare per la nomina di Drogo a ufficiale; i festeggiamenti nella villa della fidanzata Maria; il rapporto di amicizia con Filimore, che vede in Giovanni se stesso ragazzo; le visite al postribolo nel paese di San Rocco, dove la maîtresse, la signora Rosaria, capisce molto bene la decisione del tenente di non partire, dal momento che lei conosce e capisce la “malattia della Fortezza”; l’incontro con Maria, dopo tre anni di lontananza, che si mostra assorta e indifferente, tanto che sarà lei a lasciare lui.
Si può affermare, insomma, che Buzzati comprendesse bene la necessità di abbandonare il linguaggio letterario per rimodellare il romanzo con uno stile più filmico. Pur senza dimenticare che, mentre si legge un libro, nel cervello di ognuno di noi prende forma quello che Italo Calvino chiamava il “cinema mentale”. Nella quarta delle sue Lezioni americane, intitolata “Visibilità”, lo scrittore di Il barone rampante e Le città invisibili affermava infatti che “possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Il primo processo è quello che avviene normalmente durante la lettura, ossia quando ci creiamo l’immagine visiva della storia partendo dalle parole del testo”.
Immagini visive, fedeltà al testo, necessità di comprendere la difformità di linguaggi che usano le parole, come quello letterario, o sequenze in movimento, come quello cinematografico. Eppure, forse è impossibile decifrare davvero le atmosfere di Il deserto dei Tartari se non si va a riscoprire il senso di rarefazione del tempo, l’ordine estremo e la ferrea disciplina imposta dal direttore Luigi Albertini nella redazione del “Corriere della Sera”. Metodo di lavoro e stile di vita che lasciò il segno ancora per molto tempo. Tanto da spingere lo stesso Buzzati, intruppato tra i redattori nelle sacre stanze del giornalismo a 21 anni, nel 1928, a chiedersi: “Oggi sono entrato al Corriere. Quando ne uscirò? Presto, te lo dico io, cacciato come un cane”. Cosa che non avverrà mai, dato che il giovane cronista diventerà in fretta una delle firme di punta del quotidiano.
Dentro le stanze del palazzo di via Solferino, firmato dall’architetto Luca Beltrami, con i marmi tirati a piombo e i lunghi, austeri tavoloni di legno attorno a cui sedevano i giornalisti, dove “si rideva in silenzio” secondo il racconto di Gaetano Afeltra, regnava un ordine ferreo, una disciplina militare. Perché, spiegava il direttore padre-padrone Albertini, “senza il rigore e la disciplina nessuna azienda bene ordinata può sussistere. Anche un grano di polvere può nuocere all’ingranaggio”. Atmosfera che suggestionò a tal punto Corrado Alvaro, lo scrittore di Gente in Aspromonte e L’uomo è forte, da spingerlo ad annotare: “Fui colpito dall’attenzione con cui i poteri centrali erano informati dell’attività dei redattori e perfino del loro umore”.
Capitava, infatti, che già alle prime ore del mattino il direttore avesse riletto il giornale fino all’ultima riga. Evidenziando le parti degli articoli in cui rilevava sbagli e imprecisioni. Poi, toccava al potente direttore amministrativo Eugenio Balzan il compito di far recapitare sulla scrivania del giornalista colpevole dell’errore un ritaglio con le parti del pezzo sottolineate.
Anche Buzzati assaggiò l’umiliazione di quell’implacabile rito. Nella cronaca di un balletto alla Scala, il povero Dino aveva confuso una ballerina di fila con un’altra. Il giorno dopo la pubblicazione, Balzan lo chiamò al telefono e apostrofandolo con un formalissimo “signor Buzzati” lo esonerò dal ruolo di vice-critico musicale. “Per fortuna riesco a salvare il posto della cronaca nera”, si consolerà lo scrittore.
Lo stesso Giulio Nascimbeni, firma storica del quotidiano e responsabile della Terza pagina dal 1974, non stentava a riconoscere che i “giornalisti erano votati a uno strano rito notturno”, a una vita monacale come adepti di una confraternita religiosa. Assomigliavano, insomma, a severi ufficiali riuniti nelle loro stanze alla Fortezza-Corriere.
Non deve stupire, allora, se nel 1952, quando il direttore del “Corriere” Mario Missiroli decise di assumere il trentenne Giovanni Spadolini, il futuro leader del Partito repubblicano, più volte ministro e presidente del Consiglio, venne avvicinato nei corridoi di via Solferino da Dino Buzzati. Che lo mise in guardia sull’aleggiare dello spirito di Albertini: “Qui anche le mura sono impregnate della sua presenza. Egli controlla tutto, con mosse misteriose e invisibili”. Non va dimenticato che erano passati quasi trent’anni dalla fine dell’era Albertini.
Solo leggendo Il deserto dei Tartari, molto tempo dopo, il giornalista-senatore avrebbe “capito davvero la battuta”. Perché era lì, nelle stanze del Corrierone, che Giovanni Drogo abitava per davvero. Ed era sempre lì, nella Fortezza di via Solferino, nei lunghi corridoi che assomigliavano ai camminamenti di un avamposto militare, che il giornalista Dino Buzzati, impeccabile nei suoi vestiti grigi, i pantaloni con la riga perfetta, i capelli tagliati cortissimi come il tenente del Deserto, aveva aspettato l’arrivo dei Tartari. Messaggeri di un altrove capace di scompaginare lo scorrere rettilineo del tempo. Arcane ombre autorizzate a dare senso a vite cullate da sogni che non si realizzano mai.
Perché in fondo a quel percorso, nella stazione d’arrivo, Dino Buzzati sapeva bene che c’è sempre lei. Una presenza a cui è impossibile sfuggire: la Morte.