2001 - 2021 / Genova vent’anni dopo: battaglia di immagini
“L’uomo moderno non coltiva più ciò che non si può semplificare ed abbreviare.”
Walter Benjamin, Angelus Novus
Tutto sommato, dopo vent’anni (o meglio, vent’anno dopo) l’immagine più sconcertante che proviene da Genova è lontanissima dalla violenza di piazza. È quella, molto composta, dei partecipanti a “Un altro mondo è necessario”, il convegno che si è tenuto in quello stesso Palazzo Ducale che nel 2001 era il cuore della zona rossa, frequentabile solo dai potenti e dai loro apparati. Non si tratta soltanto di una riconquista simbolica, ma dell’ammissione oggettiva di un fatto profondo, che corre più o meno apertamente anche nei commenti dei media mainstream. Detto in soldoni, “Il Genoa Social Forum aveva ragione”. Non è mai troppo tardi, come si dice. O forse sì, purtroppo, perché molti dei problemi che allora potevano essere affrontati con una ragionevole programmazione, oggi sono delle emergenze probabilmente senza appello. Basta pensare al clima o a ciò che la pandemia ha scatenato. Ma anche alle migrazioni, alle guerre, alla giustizia sociale. Magra consolazione scoprire di essere stati dalla parte giusta quando molti buoi sono scappati. Meglio di niente, comunque. Basta che non ci vogliano altri venti anni perché qualcosa cambi.
Ma torniamo alle immagini. La battaglia di Genova 2001 è stata la prima in cui le immagini (riprese video, fotografie, ma anche i suoni) hanno avuto un’importanza così forte. Ripensarci oggi serve a compiere qualche riflessione sia sul fatto specifico che su aspetti più generali di quello che è avvenuto dopo, con l’avvento della società digitale. La prima considerazione è che Genova 2001 ha segnato la fine della credibilità della “versione ufficiale”. Fino ad allora le immagini che venivano dagli scontri di piazza erano poche, spesso determinate dalla fortuna e dal caso. E dal fatto, puramente statistico e dettato da condizioni materiali, che in piazza con una macchina da ripresa ci andavano solo la polizia e qualche fotoreporter indipendente. Il che ha prodotto immagini-simbolo che sono insieme verità e menzogna. Il famoso scatto del 14 maggio 1977, che ritrae Giuseppe Memeo che in via de Amicis a Milano spara contro la polizia, è un’icona degli anni di piombo. Fu usata nei tribunali per condannare lo sparatore per l’omicidio del brigadiere Custrà, ma si scoprirà anni dopo che chi aveva ucciso il poliziotto non era lui. Il valore della testimonianza storica (ed estetica) non significa automaticamente credibilità oggettiva. È un discorso sull’ambiguità che risale alla famosa “Morte di un miliziano” di Capa e sulle molte storie che riguardano la nascita di quell’immagine. A Genova però succede qualcosa di inaspettato, e completamente sottovalutato dagli apparati polizieschi. È un fenomeno che nasce verso la fine degli anni Ottanta, quando la Sony comincia a produrre la Handycam, una microtelecamera a cassette 8mm. Supercompatta, con un’ottima resa visiva e sonora, dotata di zoom e di fuoco/diaframma automatico. Anche un incapace, con quella in mano, può documentare quello che vede: basta che lo inquadri nel display apribile (altra grande novità tecnica) e schiacci un bottone. All’inizio si tratta di un prodotto a costo medio-alto, ma nel corso dei 15 anni successivi la Handycam e le sue imitazioni si diffondono capillarmente, trasformandosi in un oggetto di consumo di massa.
Molti di coloro che vanno a Genova ne hanno una con sé, compreso il sottoscritto. Non solo. A Genova, in prima linea nella documentazione, c’è Indymedia, una rete internazionale antagonista che sta usando il web in maniera pioneristica per veicolare controinformazione (ironia della sorte, proprio in questi giorni Francesca Bria, responsabile di Indymedia a Genova, è entrata nel consiglio d’amministrazione della RAI). E non dimentichiamo la sterminata squadra di cameramen professionali e istituzionali che accompagnano il G8 ufficiale. Se la sera del 20 luglio 2001 nel quartiere generale delle forze dell’ordine qualcuno pensa di poter addomesticare la comunicazione di quel che è successo, a cominciare dalla morte di Carlo Giuliani (prima versione della polizia: “È stato un sasso”…), ha un’amara delusione. Ci sono fiumi di immagini che dimostrano che le cose non sono andate come vuole una rassicurante versione ufficiale. E lo stesso accade il giorno dopo, sia durante la manifestazione che la notte, con l’assalto alla Diaz.
E adesso la storia di Genova diventa anche la mia storia personale. Durante la giornata del 21 luglio sono in mezzo agli scontri (che scontri non sono, ma un proditorio e scientifico attacco dove le botte arrivano da una parte sola). Filmo due personaggi che all’aspetto sembrano manifestanti muniti di bastone: si aggirano in mezzo alla folla, confabulano con due ragazzi in motorino (altro mistero di Genova, per chi ci è stato, quello dei ragazzi in motorino…), poi si avvicinano a un gippone della polizia, tirano fuori il distintivo e si uniscono a loro. La sera porto la ripresa da Vittorio Agnoletto, uno dei portavoce del Genoa Social Forum, che senza esitazione dice: “Vieni con me in tv”. Mi ritrovo nella trasmissione di Enrico Mentana, di fronte a Giuliano Ferrara. Si discute ferocemente di quello che è successo. Quando viene mostrato il mio filmato c’è silenzio. Ferrara sorride sornione e commenta: “Si sa che per fare il loro lavoro i poliziotti talvolta si travestono”. Ma non basta una battuta per cavarsela. Il giorno dopo l’immagine dei due poliziotti travestiti è sui giornali e nei TG. Quasi subito, si verifica il primo processo di forzatura. La vulgata diventa che quelli sono poliziotti “vestiti da Black Bloc”.
Non è – oggettivamente – vero. Ma quella ripresa video diventa una delle pietre angolari su cui il GSF costruisce la sua controinformazione, in una fase in cui della Diaz si sa poco e di Bolzaneto ancora nulla. Già, la Diaz. Per una serie di coincidenze sono dall’altra parte della strada quando accade l’irruzione, dentro il Media Center, dove poco prima la polizia è entrata a rubare – letteralmente, senza un mandato – i computer di Indymedia nell’evidente, quanto impossibile, intento di far sparire le fonti delle immagini. C’è un fatto incomprensibile ma rivelatore, in quella nottata. Dopo che abbiamo assistito allibiti al caricamento dei feriti sulle ambulanze; e dopo che l’ultima ambulanza se ne va, i poliziotti si ritirano lasciando aperta la scuola dove è avvenuto il massacro. È quasi una sfida, un gesto che dice: “Andate pure a vedere, tanto non potrete provare niente”. Invece le telecamere filmano tutto e anche se ci vorranno anni per smontare i depistaggi dei vari funzionari, la verità in tribunale verrà provata senza ombra di dubbio.
A Genova, quindi, le immagini realizzate “dal basso” con la tecnologia digitale sono state fondamentali per ribaltare le menzogne delle versioni ufficiali. Ma si sono portate dietro un effetto collaterale. La storia, perdonate, continua a essere anche personale. Per quanto le mie riprese abbiano contribuito alla battaglia per “verità e giustizia”, c’è un tarlo che lavora nella mia coscienza di narratore per immagini. È un paradosso: se prima di immagini ce n’erano poche e talvolta caricate di un significato eccessivo, a Genova ce ne sono troppe. Nei mesi che seguono, le “ricostruzioni” dei fatti sono, da destra e da sinistra, il montaggio di un’estetica della violenza che trasforma gli eventi in una sorta di astratto balletto di masse in movimento e di dettagli cruenti. Da destra si fanno vedere i gipponi in fiamme, da sinistra le teste rotte dai manganelli. Ma nessuno sembra chiedersi: perché quel gippone è in fiamme? Perché quella testa, in quel luogo e in quell’ora, sanguina? Io faccio il regista e una cosa mi è chiara. A Genova è stato filmato tutto: da chi stava dietro i carabinieri, da chi in mezzo ai manifestanti, da chi era in cima a un tetto. Incrociando i punti di vista si otterrà il “film” di quello che è successo veramente.
Ed è quello che faccio, con un piccolo gruppo di collaboratori. Riusciamo a recuperare centinaia di ore di materiale, le esaminiamo e in base a orari e luoghi ricostruiamo due giorni di scontri. Ci mettiamo un paio di mesi. Produciamo un documentario che si chiama Le strade di Genova e che sostanzialmente già a settembre del 2001 dimostra con le immagini quello che anni dopo diranno i tribunali. Già, settembre. Ironia della sorte, finiamo di montare la mattina dell’11. Poche ore dopo, Genova è spazzata via dalla cronaca dagli attacchi terroristici in USA. Mostrerò comunque Le strade di Genova in Senato, nell’ambito dei lavori della Commissione Conoscitiva, e poi in moltissime situazioni di movimento e anche in un paio di riunioni sindacali di poliziotti. E qui succede un fatto ambiguo: più io vedo quel video, più mi faccio delle domande. Gli altri, invece, sembrano usarlo solo per confermare le loro idee precostituite. In questo senso, il modo in cui lavora la Commissione parlamentare è rivelatore di una tendenza che diventerà planetaria con i social del nuovo millennio. La Commissione non è come un tribunale dove si esaminano tutte le prove e si ascoltano tutti i testimoni. No: i commissari possono scegliere di vedere quello che vogliono. Ovviamente, lo fanno a seconda della loro inclinazione politica: infatti ci saranno due relazioni finali, una di maggioranza (a rileggerla oggi c’è insieme da ridere e da piangere) e una di minoranza. Ma qualcosa del genere succede anche nel movimento.
Le strade di Genova racconta dei fatti complessi che richiedono una spiegazione articolata, ma la stragrande maggioranza di chi lo vede lo vive come la conferma di una storia precostituita: il Grande Complotto contro il Movimento. Ora, che la repressione ci sia stata è ovvio. E altrettanto vero è che abbia sortito l’effetto di azzerare il dibattito sui temi, appiattendolo sulla violenza. Ma quello che è successo quel luglio a Genova è molto più complesso: è il prodotto di azioni, controazioni, errori da entrambe le parti, di un conflitto sotterraneo tra polizia e carabinieri e di una faida taciuta all’interno dei poteri dello Stato. Se qualcuno è interessato trova il film e le mie considerazioni qui. Ma dovunque provi a esporre le mie idee vedo negli occhi dei presenti un sentimento che mi ricorda i tempi del cineforum: “Preferivo il film senza il dibattito”. Quello che voglio dire è: se le immagini degli anni’70 hanno prodotto ircocervi visivi come quello di via De Amicis perché erano poche e concentravano su di loro un eccessivo carico di significato, la valanga iconica del nuovo secolo non produce maggiore verità e comprensione, crea piuttosto un flusso indistinto in cui “un’immagine vale un’immagine”, dove è più facile lasciarsi andare al particolare che avere la pazienza di costruire un “discorso”. È il paradosso della memoria nell’era digitale: adesso che si può archiviare tutto, nessuno si ricorda più niente. La complessità razionale (o anche solo narrativa) è sostituita dal consumo istantaneo del dettaglio. Il discorso su Genova finisce per esaurirsi nei fotogrammi del povero Carlo Giuliani, martire per caso.
Ma, allargando il campo, non è la stessa cosa che – grazie alla tecnologia e alle strategie di mercato dei gruppi monopolistici della comunicazione – succede, per esempio, al cinema e al suo linguaggio? Chi oggi, se non una nicchia simpatica e minoritaria simile a quella che compra i vinili (forse la stessa), vede il cinema come si faceva nel Novecento, in un’unica “seduta” esclusivamente dedicata al film? Uso questo termine derivandolo dalla Philosophy of Composition di un pioniere della narratività moderna, Edgar Allan Poe; e invito a riflettere su quel vocabolo così concreto (“sitting”, dice Poe), perché è l’esatto opposto del modo in cui oggi si fruisce un film fuori dalla sala. La narrazione non vive più di un discorso complesso e unitario, ma di un flusso interrompibile a seconda delle necessità – anche motorie – e dei capricci dell’utente (che è anche quello che succede all’informazione e alla creazione del consenso, peraltro). D’altra parte i film per la sala di Hollywood rinunciano sempre di più a un “discorso”: assomigliano a (se non sono direttamente derivati da) videogiochi che si rincorrono in saghe a puntate il cui senso non è nel singolo episodio, ma nel contesto della serie. Oppure blockbuster come Tenet dichiarano apertamente di rinunciare alla comprensibilità, usando il plot solo come alibi di una messa in scena d’azione. Siamo molto lontani dal G8 di Genova, da dove siamo partiti, me ne rendo conto.
Ma guardare indietro serve soprattutto a capire dove siamo oggi, se no è solo nostalgia. E al di là della condivisione delle idee giuste, oggi la forma del consumo di immagini anche fortemente politiche è a dir poco superficiale. Prende, al massimo, i contorni dell’indignazione – termine quanto mai popolare nel nuovo millennio. Ma come raccomandava il mio amico Marco Paolini alla fine del suo monologo su Ustica: “Non indignatevi. L’indignazione è come l’orgasmo: dura poco e poi viene sonno”.
Concludo con un episodio visto di persona a una manifestazione del Primo Maggio a Torino, occasione tradizionale per scaramucce e polemiche tra sinistra istituzionale e sinistra antagonista – ragion per cui in piazza, anche in un giorno così ecumenico, c’è sempre la polizia. Saranno stati cinque, sei anni fa. C’era il solito momento di tensione, provocato da uno schieramento di poliziotti che impediva la commistione tra i due cortei. Una signora sui cinquant’anni dall’aria assolutamente innocua (il tipo dell’insegnante di liceo, per dire) si mise in piedi davanti a un poliziotto che la sovrastava di un buon venti centimetri. Tirò fuori il suo tablet e glielo spiattellò letteralmente in faccia, a un palmo dal naso, producendo un enorme primo piano. E restò lì, per almeno cinque minuti. La scena era potente ed estremamente ambigua. Da una parte, confermava tutto quello che ho detto finora: ricordava all’agente che qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stato documentato. Ma dall’altra, l’invadenza di quell’obiettivo usato preventivamente come una pistola aveva qualcosa di stonato. Ovvio che tra chi impugna un manganello e chi impugna un tablet resta una differenza etica e politica che non lascia dubbi su con chi schierarsi. Però il dubbio con cui lasciai la piazza quel giorno era chiaro: questo uso delle immagini produce democrazia o piuttosto un confronto incrociato di terrorismi mediatici?