Ripensare la scuola ignorando i contenuti / 5 – 1 = 4?
Il Ministero dell’Istruzione ha recentemente promulgato il Piano nazionale di innovazione ordinamentale per la sperimentazione di percorsi quadriennali di istruzione secondaria di secondo grado che «intende verificare la fattibilità della riduzione di un anno scolastico» nei licei e istituti tecnici. Ne sono esclusi i percorsi della formazione professionale, il cui impianto è stato modificato dal decreto legislativo che ha attuato una delle otto deleghe previste dalla legge 107/2015 (Buona scuola). Il Piano, «destinato a 100 classi prime», si propone di garantire «l’insegnamento di tutte le discipline previste dall’indirizzo di studi di riferimento» attraverso il ricorso alla flessibilità didattica e organizzativa «consentita dall’autonomia». Si precisa, inoltre, che «il corso di studi assicura agli studenti il raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento e delle competenze previsti per il quinto anno», ragion per cui «restano ferme le disposizioni vigenti in materia di Esame di Stato».
Il documento stabilisce che le singole istituzioni scolastiche (statali e paritarie) presentino un progetto di attivazione di una singola classe prima che risponda ad una serie di requisititi: elevato livello di innovazione, in particolare per quanto riguarda l’articolazione e la rimodulazione dei piani di studio; l’utilizzo delle tecnologie e delle attività laboratoriali nella didattica; l’uso della metodologia Clil (lo studio di una disciplina in una lingua straniera); la messa in atto di progetti di continuità e orientamento con la scuola secondaria di primo grado, il mondo del lavoro, gli ordini professionali, l’università e i percorsi terziari non accademici. Una Commissione tecnica valuterà la congruenza delle domande, mentre nel corso del quadriennio un Comitato scientifico nazionale avrà il compito di monitorare gli esiti della sperimentazione «con particolare riguardo al coinvolgimento di tutte le discipline» e al raggiungimento «degli obiettivi specifici di apprendimento previsti per ciascun indirizzo di studio».
La proposta di quadriennalizzazione della scuola superiore ha radici lontane. Nell’Atto di indirizzo concernente l’individuazione delle priorità politiche (2013) il ministro Francesco Profumo individuava nell’adeguamento agli standard europei la ragione della riduzione di un anno del corso di studi «in connessione alla destinazione delle maggiori risorse disponibili per il miglioramento della quantità e della qualità dell’offerta formativa». Venne istituita una commissione tecnica con il compito di analizzare quali soluzioni fossero concretamente realizzabili. Emersero tre ipotesi: l’anticipazione a 5 anni della scuola primaria, la riduzione da otto a sette anni del primo ciclo (primaria + media), la riduzione da cinque a quattro anni del secondo ciclo. Quest’ultima venne ritenuta la soluzione politicamente più praticabile anche in relazione alle durissime polemiche che avevano accompagnato la riforma dei cicli elaborata dal ministro Luigi Berlinguer nel 2000. La sperimentazione partì su 11 scuole (6 pubbliche e 5 private) con l’insediamento in viale Transtevere di Maria Chiara Carrozza (2014) anche se il tema scomparve dall’Atto di indirizzo annuale (Un elenco delle scuole si trova qui).
Le resistenze non si fecero attendere: il ricorso al Tar del Lazio ad opera della Flc Cgil produsse una sentenza di annullamento dei Decreti Ministeriali n. 902 e n. 904 con i quali il Ministero aveva autorizzato la sperimentazione, disposizione poco dopo annullata dal Consiglio di Stato (sentenza n.832/15) che, invece, la riteneva pienamente coerente con i poteri previsti dall’art. 11 del DPR 275/99. I soggetti destinatari erano istituti che «presentano caratteristiche di forte internazionalizzazione», come ha spiegato in un’intervista la responsabile di viale Trastevere. Nel 2016 circolò dapprima la notizia di un nuovo bando che ampliava la platea della sperimentazione a 60 classi prime. Effettivamente il Ministero incontrò le parti sociali, presentò la futura sperimentazione al Consiglio superiore della pubblica istruzione in una seduta alquanto tormentata come si evince dai comunicati reciprocamente accusatori della Flc Cgil e dell’Anp (Associazione nazionale Presidi). Molti elementi inseriti in quella bozza restano alla base del presente Piano: maggiore flessibilità oraria, didattica e organizzativa per recuperare, almeno in parte, il numero di ore di lezione; raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento e delle competenze previsti dai vigenti ordinamenti per il quinto anno di corso, entro il termine del quarto anno; l’insegnamento di almeno una disciplina non linguistica con metodologia CLIL, a partire dal terzo anno. La sperimentazione sarebbe dovuta partire su classi di 15/25 alunni, elemento questo non recuperato dalla presente disposizione normativa in quanto configurerebbe una classe fortemente sottodimensionata rispetto alla media nazionale (30 studenti), quindi atipica e non rappresentativa.
Il referendum costituzionale, la crisi del governo Renzi, ha fatto slittare i tempi. L’Atto d’indirizzo firmato dalla presente ministra Valeria Fedeli ha recuperato, in forma umbratile, il tema. Infatti, nella «terza priorità politica» individuata, è scritto che occorre sostenere «la flessibilità scolastica curricolare [corsivo mio] attraverso formati e modelli didattici innovativi e aperti», in un’ottica di attenzione alle diverse esperienze internazionali. In agosto, come si è detto, il decreto ministeriale; da settembre la presentazione delle candidature delle scuole che avrà inizio nel 2018-2019.
Il provvedimento ha generato un articolato e aspro dibattito tra chi legge nella disposizione un’operazione di depauperamento culturale finalizzata «ad anticipare il precariato a vita» (R. Ciccarelli, in «Il Manifesto», 07/08/2017) e chi ne coglie le opportunità in termini di riduzione del «mismatch fra ciò che si sa, o si è in grado di imparare e ciò che serve sapere o saper fare» in una società globalizzata (G. Brugnoli; l’autore è vicepresidente di Confindustria). Non è privo di significato ricordare che storicamente tale operazione si è connotata in primo luogo come una misura di contenimento dei costi e secondariamente come una scelta pedagogico-culturale. Inoltre occorre chiarire che in Europa si procede in ordine sparso: grossomodo metà degli Stati membri chiude a 18 e metà a 19 come si ricava dai Quaderni di Eurydice. Varrebbe la pena ricordare che la comparazione tra i diversi sistemi scolastici europei è operazione complessa e non riducibile sic et simpliciter alla durata. Ai fini del nostro discorso occorrerebbe evidenziare l’esistenza o meno di più filiere educative di secondo grado, la loro relazione con il percorso universitario (presenza o meno di vicoli). Non a caso il riferimento a standard internazionali è stato cancellato dalla bozza iniziale del Piano su indicazione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (CSPI), organismo consultivo il cui parere è vincolante..
In diverse occasioni la ministra è intervenuta precisando il senso dell’azione legislativa: garantire maggiore trasparenza ed efficacia alla sperimentazione, lasciare ai decisori politici nel 2023 (termine del periodo) il compito di «valutare e a discutere i risultati» senza «nessuna velleità di poter completare o anche solo avviare una riforma dei cicli che interessa milioni di famiglie italiane, che incide sul futuro delle nuove generazioni e dell’intero sistema Paese, nei pochi mesi che restano prima della fine della legislatura». Molto rumore per nulla, dunque?
Chi scrive ritiene che una seria riflessione sui cicli scolastici debba essere promossa e accompagnata da una altrettanto seria riflessione sui saperi da promuovere per il XXI secolo, senza però cadere nelle trappole di un’ideologia post-moderna che ha della cultura una visione piuttosto strumentale. Sembra del tutto condivisibile la considerazione di Walter Tocci: «occorre registrare gli orologi dell’educazione con quelli dell’esistenza: il primo giorno di scuola con la nascita l’ultimo giorno con la fine della vita» (in La scuola, le api e le formiche, Donzelli, 2015). Essa implica una visione sistemica dell’istruzione e della formazione: da un ciclo integrato 0-6 sino all’educazione degli adulti, scomparsa dal dibattito pubblico di questo paese. Nessuna pregiudiziale, dunque.
Le mie perplessità su tale provvedimento sono sostanzialmente tre: a) non si tratta di una sperimentazione in quanto ne mancano i requisiti; b) è assente una visione sistemica della realtà scolastica; c) condensare in due anni gli stessi obiettivi di apprendimento previsti in tre anni comporta una banalizzazione insensata delle discipline. Mi avvalgo nella strutturazione del ragionamento del Parere elaborato dal CSPI. Non mi occupo in queste considerazioni del pur rilevante problema dell’organico scolastico.
Non chiamatela sperimentazione
In apertura il documento chiarisce come la scuola italiana «deve molto alla ricerca pedagogica e didattica», fondata «su di un giusto equilibrio tra la fase di elaborazione teorica e quella di sperimentazione operativa». Il riferimento implicito è alla Commissione presieduta dall’onorevole democristiano Beniamino Brocca che tra il 1988 e il 1992 ridefinì i programmi per il biennio e per il triennio della scuola superiore. Giuseppe Ricuperati (Storia della scuola in Italia. Dall’Unità a oggi, La Scuola, 2015) ha parlato di tale progetto come di «un notevole esempio di costruzione culturale», frutto di un intelligente coinvolgimento di competenti reclutati tra università e scuola, capace di prefigurare una secondaria superiore unitaria, articolata in un biennio dominato saldamente da discipline comune (e in cui si sarebbe dovuto realizzare l’obbligo) e un triennio articolato in indirizzi, in un «sapiente equilibrio» tra discipline comuni e caratterizzanti. Non è questa la sede per una valutazione di quell’esperienza con i suoi nodi problematici. Piuttosto conviene constatare quanto la presente sperimentazione sia lontana dai normali requisiti richiesti ad un protocollo scientifico e piuttosto carente dal punto di vista teorico.
Si legge infatti:
«una sperimentazione che voglia mettere a disposizione del paese risultativi significativi non può prescindere dal rispetto di criteri scientificamente rigorosi, con la definizione di un campione territoriale il più ampio e rappresentativo possibile, sia a livello territoriale sia rispetto ai diversi percorsi di studio».
L’ABC di un qualsiasi protocollo scientifico: la rappresentatività del campione, selezionato secondo criteri ben più stringenti che non quelli previsti dall’articolo 6 (Selezione delle proposte progettuali) che al comma 2b identifica nella «equilibrata distribuzione delle classi sperimentali a livello nazionale e il coinvolgimento nel piano di innovazione dei percorsi ordinamentali di liceo e istruzione tecnica» uno dei due parametri vagliati da un’apposita Commissione tecnica nominata dal Direttore Generale della Direzione Generale per gli ordinamenti scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione formata da dirigenti tecnici e funzionari dell’amministrazione esperti per i diversi percorsi di istruzione secondaria di secondo grado.
Inoltre è del tutto assente dall’orizzonte ministeriale il rischio, tutt’altro che infondato, di attivare gruppi classe formati da studenti in possesso di un alto tasso di capitale socio-culturale. La letteratura sulle transizioni scolastiche dal primo al secondo ciclo ha mostrato quanto la scelta del percorso d’istruzione secondaria da parte delle famiglie dipenda dal possesso di specifici strumenti culturali in grado di decodificare con competenza le numerose alternative del mercato dell’offerta formativa. Il rischio, quindi, è di una forte selezione in ingresso e di un’anomala concentrazione di studenti dai profili cognitivi e culturali assai qualificati in grado di reggere l’incremento del monte orario settimanale, la realizzazione dell’alternanza scuola-lavoro in estate o durante i periodi di sospensione didattica, accompagnati dal sostegno di una stabile shadow education delle famiglie capace di compensare le possibili difficoltà del percorso scolastico.
La composizione delle classi prime è prerogativa delle scuole che, generalmente, adottano criteri atti a garantire una buona equieterogeneità nella persuasione che essa sia un tassello importante per qualità degli apprendimenti. Non esiste, tuttavia una normativa comune in quanto ogni Istituto, sulla base dell’autonomia scolastica, si dota di regole proprie che inserisce nel Piano triennale dell’offerta formativa e nel Piano di miglioramento. Come hanno documentato i risultati delle prove Invalsi esiste una significativa tendenza alla formazione di classi ‘ghetto’. La segregazione scolastica e gli «effetti di campo» costituiscono fenomeno tutt’altro che residuale (si vedano i lavori di M. Pitzalis, Effetti di campo. Spazio scolastico e riproduzione delle diseguaglianze in «Scuola democratica», 6, 2012, pp. 26-42. M. Cardoni – P. Falzetti – A. Severoni, Equità o segregazione scolastica? L'effetto della composizione delle classi sull'apprendimento degli studenti, Invalsi, Working paper 15/2015). Commentando la distribuzione geografica dei risultati Invalsi, la stessa ministra ha puntualizzato:
La variabilità fra classi è un dato che ha a che fare con la 'democrazia' di una scuola. Classi troppo omogenee, con alunne e alunni 'raggruppati' per 'bravura', rappresentano un fenomeno contrario ai principi della nostra Costituzione, che va arginato.
Non sembra che gli attuali meccanismi che danno via alla sperimentazione riescano a contenere significativamente il rischio di produrre un setting anomalo e, dunque, scarsamente utile al termine della valutazione dell’efficacia del provvedimento.
Cosa significa efficacia? Su quali parametri valutarla? Con quali metodologie? Del tutto condivisibili sono le preoccupazioni espresse dall’Associazione Pedagogisti ed Educatori Italiani: con quali criteri verranno selezionati gli studenti nel caso ci sia un eccesso di richiesta: solo i più meritevoli dal punto di vista del profitto in uscita dalla scuola secondaria di primo grado? Di quali criteri di valutazione pedagogica e scientifica si doterà il Comitato scientifico regionale e nazionale che valuterà gli esiti della sperimentazione?
Le disposizioni del Piano sono alquanto generiche. L’art. 8 specifica che siano i Comitati regionali a valutare annualmente gli esiti della sperimentazione relativamente al coinvolgimento di tutte le discipline e al raggiungimento degli obiettivi di apprendimento. Il Comitato scientifico nazionale, raccolti le risultanze regionali, stende una relazione finale. Sempre nel medesimo articolo è scritto che il Comitato scientifico nazionale predispone «misure di accompagnamento e formazione a sostegno delle istituzioni scolastiche». Affermazione generica impossibile da valutare in assenza di dettagli.
Rimane forte la preoccupazione che a stabilire dell’efficacia della sperimentazione sarà il numero di promossi, sospesi nel giudizio o respinti, dato senza dubbio utile per valutare le performances ma che poco illumina sui processi cognitivi che si vorrebbero (forse) monitorare. Il timore è che, in ultima analisi, sia il superamento e la relativa valutazione dell’Esame di Stato e\o le prove Invalsi a orientare il giudizio. Indicazioni in questo senso già esistono. Il «Giornale di Brescia» (6/07/2017) segnala gli «esiti da record» per i 25 studenti del Liceo Guido Carli (scuola paritaria promossa dall’Associazione Industriale Bresciana): punteggio medio 82,74/100, 0 bocciati. «Il risultato dimostra che il percorso può essere compiuto in quattro anni, come in tutti gli altri Paesi. Il modello è trasferibile» ha dichiarato la dirigente scolastica Donatella Preti. Resta da verificare se tale scuola, con una rata di 8.000 euro annuali (con presenza di borse di studio) possa essere considerata rappresentativa della realtà scolastica. Ma il superamento dell’Esame di Stato è un parametro credibile? Aggiungo liminarmente: vogliamo che lo sia? Gli esiti delle prove 2016-2017 restituiscono il 99% di promossi. Statisticamente il valore è troppo alto perché possa considerarsi un riferimento credibile. Quanto all’utilizzo delle prove Invalsi come certificazione degli apprendimenti, ciò sarebbe coerente con quanto disposto dal decreto legislativo attuativo della legge 107 che ha stabilito le nuove regole in materia di valutazione e certificazione delle competenze. In esso, come ha puntualmente registrato Bruno Losito, è contenuto «il definitivo passaggio dall’uso delle rilevazioni in funzione della valutazione di sistema e del sostegno all’autovalutazione delle scuole al loro uso per la valutazione degli studenti, dei singoli studenti». L’art. 9, infatti, stabilisce che la certificazione delle competenze del primo ciclo comporti la produzione di un documento, di cui ad oggi non sono chiare le caratteristiche, in cui registrare, in forma descrittiva «l’esito delle del livello raggiunto nelle prove a carattere nazionale […] distintamente per ciascuna disciplina oggetto della rilevazione e certificazione sulle abilità di comprensione e uso della lingua inglese». Analoga proposta per la scuola secondaria di secondo grado: accanto al diploma verrà allegato un curricolo in cui si farà menzione esplicita – in un’apposita sezione – dei risultati conseguiti nelle rilevazioni Invalsi in italiano, matematica e inglese.
A nulla è valso il tentativo del CSPI di riorientare il provvedimento attribuendo al Comitato scientifico nazionale l’elaborazione di linee guida nazionali in grado di garantire un minimo di progettualità comune. Il decreto, infatti, specifica che ciò contrasterebbe con l’autonomia scolastica garantita dal drp 275/1999. Il che ha qualcosa di paradossale: l’esuberanza legislativa di questi ultimi anni ha affossato l’autonomia scolastica, ma ora viene chiamata in causa come scudo per evitare l’attivazione di un protocollo scientifico su scala nazionale in grado di stabilire preventivamente cosa osservare, cosa e come valutare. Si confonde l’autonomia con l’autoreferenzialità scolastica.
Assenza visione sistemica
Nel complesso quadro di ordinamento dei cicli, sarebbe opportuna una considerazione complessiva dei curricoli all’interno dell’ordinamento scolastico nazionale, con un’ambizione pedagogico-scientifica più ampia a partire dalla scuola dell’infanzia, e una visione unitaria coerente delle caratteristiche e delle finalità del percorso d’istruzione.
«Coerente ed unitaria»: proprio questa è una lacuna notevole. Un provvedimento sugli ordinamenti scolastici, di qualunque genere esso sia, non può non essere sostenuto da impianto pedagogico-culturale forte, con alla base una specifica idea di cosa debba essere l’istruzione formale nelle attuali società post-moderne. Il rischio è quello di produrre una sterile ingegneria dei cicli o di orientare le scelte delle famiglie verso «una mera abbreviazione dei percorsi di studi». Organizzare una secondaria di quattro anni, non implica un ripensamento dell’istruzione terziaria, in special modo del primo triennio universitario, chiamato ad assolvere – almeno parzialmente – a compiti e funzioni prima caratteristici del ciclo di studi precedente? Anche in questo caso occorrerebbe una riflessione capace di coinvolgere tutti gli attori del sistema d’istruzione sul continuum istruzione primaria, secondaria e terziaria.
Le elaborazioni in tal senso non sono mancate nella storia della scuola italiana. Il riferimento, per differenza, è alla proposta elaborata da Luigi Berlinguer nel lontano 2000 di unificazione della scuola elementare e media, della durata complessiva di sette anni, in un’ottica di radicale ripensamento del ciclo di base in grado anche di limitare i rischi di dispersione scolastica nella transizione al secondo ciclo. Mi sembra poco calzante la possibile controbiezione: non vi è tempo per ripensare complessivamente i cicli scolastici. Vero. Si dovevano evitare le improvvisazioni.
Impoverimento culturale
Ciò che colpisce in questo accanimento legislativo sul funzionamento delle istituzioni scolastiche è il totale riferirsi del decisore politico alla forma amministrativa, perché i contenuti, cioè i saperi, non pongono problemi, si riducono alle competenze da adeguare al mondo esterno. Nessuna riflessione su come rimodulare le discipline nel quadriennio, quali selezioni contenutistiche (anche dolorose per certe tradizioni nazionali) apportare. Ha osservato Scotto di Luzio (La scuola che vorrei, Bruno Mondadori, 2016) che questa riluttanza e in alcuni casi il rifiuto esplicito di pensare il rinnovamento della scuola in termini di ripensamenti dei contenuti di insegnamento è un fenomeno caratteristico dei sistemi d’istruzione occidentali. L’idea di un canone culturale, criticamente rivisitato, mediato in maniera intelligente secondo le numerose indicazioni che provengono dalla ricerca accademica e dalla pratica scolastica appare desueta con la conseguenza che una scuola a scarsa intensità culturale accentua i suoi caratteri classisti. L’espropriazione di tempo comporta il fortissimo rischio di banalizzazione delle discipline e di ridimensionamento di ogni attività didattica laboratoriale che ha bisogno di un cospicuo monte ore per poter essere significativamente svolta. Ha ragione Benedetto Vertecchi quando sostiene che è prevalsa l’idea «di un’educazione senza cultura» in cui si può acquisire la capacità di lettura prescindendo dalla qualità del testo o di scrittura che sia indipendente dal messaggio (Stiamo affogando nei luoghi comuni, in «Tuttoscuola», 535, 2016).
Sia chiaro: nessuna difesa acritica di un sapere trasmissivo, cumulativo-informativo, ma consapevole promozione di saperi sapienti di cui parlava Chevallard, frutto di un’azione di selezione dei contenuti operata dal docente. Saperi disciplinari e didattica per competenze possono coesistere. Il punto è che i processi di apprendimento non sono lineari ma sottoposti ad accelerazioni e regressioni. I tempi ‘morti’, nei quali costruire metacognizione, non possono essere cancellati in una logica della corsa. L’insegnamento e l’apprendimento hanno una dimensione relazionale che necessita di lentezza per poter essere costruita anche attraverso un profondo ripensamento della scansione del calendario scolastico. Dalla lettura del testo ministeriale, invece, emerge la desolante idea che l’attività di trasposizione di didattica e i processi di apprendimento siano indipendenti da vincoli temporali. Altro che didattica mite. Il rischio è di saturare il quadro orario in un folle volo dalle connotazioni fortemente elitarie. Una logica ascrivibile a quel fenomeno di accelerazione sociale, cifra caratteristica delle società attuali descritto da Hartmut Rosa (Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, 2015). Insomma la drammatica crisi di senso che investe la scuola, crisi cognitivo-emotiva dei soggetti che la frequentano, non può essere risolta né da affrettate operazioni chirurgiche né dall’usuale ricorso alle innovazioni tecnologiche come panacea per ogni assenza di motivazione.
In conclusione
Dunque, che cosa si sarebbe dovuto fare? Nulla. Tuttavia – verrà obiettato – nei licei italiani all’estero i percorsi sono quadriennali? Certamente con la non marginale differenza che le condizioni in cui si trovano ad operare sono scarsamente confrontabili: la popolazione studentesca è mista; gli accordi bilaterali con i ministeri dell’Istruzione locali determinano la presenza di materie non esistenti in Italia (lingua catalana a Barcellona o storia turca a Istanbul, ad esempio) e di un quadro orario differente. Costituiscono un percorso calibrato per realtà specifiche: si va da un quadro orario non inferiore alle 34 ore settimanali sino a 40. Inoltre le stesse materie sono distribuite differentemente: filosofia, ad esempio viene insegnata a partire dal secondo anno.
Propongo, per concludere, uno scenario controfattuale. La ministra Fedeli il 07/08/2017 ha emesso un comunicato con il quale ha dato mandato agli uffici tecnici del Miur di raccogliere i dati della sperimentazione iniziata nel 2013-2014, aprendo la strada ad una pratica desueta per la classe politica italiana: la rendicontazione critica di un’attività terminata. Accountability, monitoraggio. Tali risultati, ha concluso, saranno oggetto di una discussione pubblica con gli attori del settore istruzione. L’obiettivo: lasciare ai futuri decisori politici materiale controllato sul quale innestare le proprie priorità politiche, anche quelle di una sperimentazione ordinamentale rigorosamente controllata. Sogno di una notte di fine estate?