Speciale
Classici in prima lettura / Il carteggio Aspern
Abbiamo affidato ai nostri autori la lettura di un classico che non conoscevano, da leggere come se fosse fresco di stampa.
Un classico mai letto. Ci pensi un po’, fai qualche conto, e scopri che sono più quelli che potrai ancora scoprire di quelli che hai già percorso, amato, rifiutato. Ne scegli uno. Ci ragioni su per una settimana, senza toccarlo. Poi capisci che se non lo avevi affrontato qualche motivo c’era. Stessa cosa per un altro. Cosa scriverò? È giunto finalmente il momento di Guerra e pace? No, troppo lungo per i nostri tempi veloci: aspettare la pensione.
Poi, per caso, stai leggendo un racconto su un luogo che ami, che ti rimane misterioso, in parte estraneo, dove hai vissuto per lavoro per qualche periodo e non sei riuscito a trovare la chiave del labirinto. Insomma Venezia, città fluida, liquida, contemporanea perciò e, naturalmente, antica, antichissima, spiattellata ogni giorno a migliaia di turisti e inaccessibile. Stai leggendo il Ritratto veneziano di Gustaw Herling (appassionante, ma non un classico; troppo moderno, con quelle calli e quei campi toccati dal conflitto mondiale finito nel 1945, quella storia di orrori, di amori, di falsari, di solitudini, di giovani cherubini trasformati in assassini repubblichini, con il bello e il male incarnati e proiettati in quadri di Lorenzo Lotto o presunti tali – copie perfette o invenzioni) e trovi due riferimenti, uno all’inizio, uno alla fine, al Carteggio Aspern (Aspern Papers) di Henry James.
Lo cerchi. Lo trovi nell’edizione dei classici appartati, veloci, folgoranti della collana Centopagine di Einaudi, una delle felici invenzioni editoriali di Italo Calvino (poi guarderai anche l’introduzione di Franco Cordelli nei Grandi libri Garzanti). Inizi, quasi sicuro che farà la fine degli altri (che non hai neppure cominciato a sfogliare). E sei rapito.
Ancora Venezia. Una Venezia di fine ottocento, appartata, segreta nella maggior parte delle pagine, poi esibita in due momenti: notturno luogo di sciabordio di chiacchiere nei caffè della piazza San Marco; rivolta verso misteriosi orizzonti lontani come il mento e lo sguardo della statua equestre di Bartolomeo Colleoni davanti ai Santi Giovanni e Paolo e scenario di gente in posa come a teatro sui marciapiedi che costeggiano i canali.
Siamo in un’altra Venezia rispetto a quella di Herling, uscita da un’altra guerra, da varie guerre, non più la Dominante, non più la Serenissima: la decaduta, la decadente, la rovinosa, la putrescente… Siamo intorno al 1880: è la città stremata dall’eroica resistenza del 49, “il morbo infuria / il pan ci manca / sul ponte sventola bandiera bianca”, quella della Sacca della Misericordia percorsa dall’ansia della contessa Serpieri in cerca del tenente Mahler, mentre scoppia il conflitto del 1866, che ridarà la decaduta, la venduta di Campoformio, l’esaurita, all’Italia, mentre Visconti racconta un amour fou, tradimento e vendetta, tra patrie dell’anima, tra sentimenti, tra popoli mescolati. Senso, che inizia con la più risorgimentale, patriottica delle opere di Verdi, apparentemente la meno politica, in realtà quella con il più alto tasso di insofferenza insurrezionale e di senso della sconfitta post-49: “Di quella pira l’orrendo foco/ Tutte le fibre m’arse, avvampò!... / Empi, spegnetela, o ch’io tra poco / Col sangue vostro la spegnerò... / Madre infelice corro a salvarti / O teco almeno corro a morir…” (canta Manrico prima di finire sconfitto in un’oscura cella).
Aspern è un poeta degli inizi dell’800 (le introduzioni raccontano che James si ispirò a una storia raccontata su carteggi di Shelley e Byron). Gli specialisti della sua opera sanno che esiste una corrispondenza con una donna, che poi si è trasferita in Italia, che vive, ancora, forse centenaria, rinchiusa da anni in un palazzo di Venezia. Il narratore – il protagonista, di cui sappiamo solo che è uno studioso e appassionato di Aspern – la ritrova e prende alloggio da lei, accettando di pagarle una pigione esagerata. Il suo scopo è capire se il carteggio è stato bruciato o se esiste ancora, per impadronirsene. Per farlo deve dissimulare il proprio interesse perché ad altri, che cercavano di penetrare il segreto, la vecchia si è rivolta violentemente, troncando ogni rapporto e chiudendo ogni possibilità di accesso al presunto tesoro.
Siamo in un palazzo veneziano fatto di decine di stanze, tutte semiabbandonate, spoglie, dominate dalla polvere. Il narratore viene ammesso e conosce la nipote di Juliette, Tina, una zitella appassita, inacidita di qualche anno più giovane della zia.
Un luogo segreto. James non indica dove si trovi ed è un bel divertimento girare per Venezia in cerca del palazzo, tra i tanti che da fuori sembrano semiabbandonati o in rovina. Vi si accede dal canale e oggi non è facile se non si possiede un motoscafo considerare quella prospettiva; e poi, dall’Ottocento, molte vie d’acqua sono state terà o sono diventate salizade, selciati, strade. C’è un giardino inselvatichito, che il narratore trasformerà in una specie di insidioso Eden, per tentare con i fiori, per conquistare le due donne e sapere qualcosa del carteggio.
Il romanzo breve prosegue con questa prudente circospezione della voce narrante, con le sue paure di essere scoperto e di fallire, con il rischio che si assume di mettere a parte Tina di qualcosa del suo progetto, con i suoi tentativi di incontrare la vecchia che sempre si nega.
Finalmente le parla. Nel salone, prima rimasto inaccessibile. È decrepita, su una carrozzella, cieca forse, fotosensibile sicuramente: ha gli occhi occultati da una mascherina. È chiusa in sé, senza vie di accesso ai labirinti dei suoi ricordi. Alla sua gioventù e al suo amore (forse) per il poeta. Come Venezia, poche strade fitte di turisti che nascondono tesori d’oro, di marmi, di pietre e di acque inaccessibili ai più.
Il gioco si fa pesante, fino a un finale in cui il protagonista cerca addirittura di rubare la preziosa corrispondenza e viene sorpreso dalla vecchia, inaspettatamente erettasi come una Erinni vendicatrice: cala la mascherina e lampeggiano i famosi occhi azzurri che dovevano aver incantato il poeta Aspern. E poi lei sembra morire...
Il vedere, il rivelare, come un lampo che abbaglia e stordisce. La vita custodita in uno scrigno interno, buio, segreto, che l’arte vorrebbe squarciare (e ancora di più la critica, la sistemazione dell’arte – e della vita) e non riesce a farlo. I classici sono giostre che ti lanciano continuamente all’improvviso da qualche altra parte, in zone inesplorate di quel mondo articolato, di memoria, pre-visione, smarrimento, scoperta che è l’immaginazione, il forgiare immagini per decifrare, inventare il pulsare del reale. Qualcosa risuona di un altro libro amato, Antichi maestri di Thomas Bernhard, uno che guarda un altro che guarda un quadro di un pittore veneto, un ritratto (di Tintoretto) al Kunsthinstorisches Museum di Vienna, in un vorticoso walzer che mette in questione l’arte e la vita, il vero, il falso, lo sguardo, l’essere, fino ad arrivare a dire che tutta l’arte non vale una sola persona cara persa. Juliette che conserva le lettere di Aspern come la sua gioventù, indifferente al loro valore scientifico, filologico, artistico.
Bruciare il carteggio, come quello sguardo incandescente e celestiale, che ustiona il protagonista. Juliette fantasma, come in tanti altri racconti e romanzi di James, “mostro” (monstrum) custode e vendicatore di un passato inaccessibile? San Michele con la spada? San Giorgio che massacra draghi in vari angoli di questa città fluida, abbandonata e centrale, che Ruskin dichiarava in decadenza già dal 1418, da quando muore come bizantina e gotica, come ecumenico progetto collettivo di un popolo, e diventa aristocratica, razionalista, marmorea, palladiana?
“Così, mentre ti aggiri per questi labirinti, non sai mai se insegui uno scopo o se fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la preda. Non un santo, sicuramente, ma forse non ancora un drago in piena regola: non proprio un Teseo, ma neanche un minotauro affamato di vergini” (Josif Brodskij, Fondamenta degli incurabili).
Il narratore scappa dopo aver visto fiammeggiare come la spada di San Michele gli occhi, dopo essere stato bollato come “canaglia di pennaiolo” perché voleva penetrare i segreti di Juliette. Viaggia nell’entroterra. Pensa che la vecchia abbia bruciato le lettere. È disperato. Torna. E scopre che il carteggio esiste ancora e che potrà essere suo, se sposerà Tina. Altra fuga. Questa volta per Venezia, che avevamo visto solo verso il centro del racconto in una serata proprio con la zitella più giovane, portata a San Marco, tra le ciacole e i divertimenti onesti, mentre lui cercava i modi per espugnare la decrepita zia. Scappa da solo. Gira, in gondola, per le isole della laguna, al Lido; vede il monumento a Colleoni davanti ai SS. Giovanni e Paolo, guarda Venezia, subito prima del finale, cercando di decidere se il carteggio vale lo sposalizio con la zitella. Riporto un lungo pezzo (è bello sentire, anche se in traduzione, la qualità della scrittura):
Non so perché in tale circostanza mi avvenne di rimanere più che mai colpito da quella strana atmosfera di affabilità, di parentela, di vita di famiglia che costituisce per metà il tono di Venezia [notare quel: per metà, ndr]. Così senza strade, senza veicoli, senza strepito di ruote o impetuosità di cavalli, con le sue calli tortuose dove si formano capannelli di persone, dove le voci risuonano come nei corridoi di una casa, dove il passo umano si posa come a evitar gli spigoli del mobilio e le scarpe non si consumano mai, la città ha carattere di un immenso appartamento collettivo, di cui piazza San Marco sia l’angolo più adorno e per il resto palazzi e chiese abbiano la funzione di grandi sofà da riposo, di tavoli da ritrovo, di strutture decorative. E, in certo modo, questo splendido domicilio comune, così domestico e sonoro, assomiglia anche a un teatro in cui gli attori stacchettino sui ponti e, in disordinate processioni, passeggino svelti lungo le Fondamenta [bisogna pensare ai teatri dell’ottocento, illuminati, pieni di vita sociale nei palchetti; e a quello che di Venezia scrive Goethe nel Viaggio in Italia, ndr]. Per lo spettatore che sta seduto in gondola, i marciapiedi che qui e là costeggiano i canali, presentandosi a livello dell’occhio, assumono l’importanza di un palcoscenico sul quale le figure veneziane, che si muovono su e giù contro gli sgualciti fondali delle loro casupole da commedia, fanno l’effetto di una foltissima compagnia di comici.
Ho letto questo finale, per caso, seduto davanti al Miracolo della reliquia della croce al ponte di Rialto di Vittore Carpaccio all’Accademia. Guardavo la pagina e alzavo l’occhio. Anche là c’è una città che si mostra come in una scena teatrale a chi guarda. Ma in posa sono anche i gondolieri, tutti, sui vari piani. Anche il ponte di legno e i camini caratteristici. Tutte le figure umane si offrono, si esibiscono allo spettatore, foresto o cittadino, immagine di città, di comunità. Nel racconto di James c’è un occhio nuovo. Sulla gondola c’è il voyeur. Il protagonista del tour-ismo, lo straniero raffinato, che ormai, come oggi le masse di giapponesi e cinesi, è quello che principalmente prende le gondole. C’è un’idea di città snaturata, che mentre continuamente si vende tiene chiusi, stretti a sé i propri segreti, i propri rituali. Come Juliette.
Come nel finale, con Tina che propone il matrimonio per cedere i cimeli di Aspern, ciò che uno agogna contro ciò che un altro ha desiderato per la propria sicurezza e mai ottenuto (economia dell’arte, economia della vita, il desiderio, qualsiasi sia, si vende e si compra). Lui ci pensa. Durante quel giro nella città sta quasi per decidere per il sì (ha capito che per avere deve essere, deve entrare, deve passare dalla gondola alla fondamenta e anzi all’interno del palazzo, nelle stanze più segrete). Ma il giro di pensiero è fatale: quel rimuginare, lasciandosi trasportare da Colleoni e dallo spettacolo teatrale di Venezia, ha dato a Tina il tempo di bruciare tutto. Un doppio tentativo di avvicinamento si traduce in un allontanamento irredimibile.
Nascondersi, sottrarsi, non farsi penetrare. Lasciare la vita con le sue cerimonie separata dall’arte e all’arte misteriosa, pronta a svanire. In una Venezia che continua a scorrere, anche se le sue pietre sembrano sgretolarsi e le sue case ogni giorno svuotarsi e rinchiudersi un po’ di più su se stesse. I classici forse ci permettono di vedere oltre quei muri, di materializzare fantasmi, oltre lo spettacolo delle merci. Perciò li intrecciamo con le vite, le nostre, quelle di altri racconti, classici e no, sporchi del tempo, delle città, dell’estate, della vacanza, del vuoto che marca ogni storia che apre crepacci e propizia allagamenti.