Oltre le palme e gli ulivi / Alberi della Passione
Palme e ulivi sono gli emblemi arborei della Pasqua. Eppure, la settimana della Passione ha come protagonisti altri esemplari clorofilliani. Tutti noi abbiamo negli occhi la corona di nude spine imposta al Cristo prima della crocefissione, e l’iconografia sacra sempre così la raffigura. Infatti, secondo la vulgata latina da cui dipende la maggior parte delle traduzioni italiane, i Vangeli di Marco Matteo e Giovanni (Luca sorvola sul dettaglio) parlano di spineam coronam (Mc) e di coronam de spinis (Mt. e Io.). Chi invece compulsa la versione greca, ad esempio nell’edizione dei Millenni Einaudi curata in modo magistrale da Giancarlo Gaeta, si stupirà nel leggere che la corona viene intrecciata dai soldati con foglie di acanto (Mc., akánthinon stéfanon; Mt. e Io., stéphanon ex ákanthon).
È pur vero che akántha significa proprio «spina», tuttavia rimane legittimo il dubbio sul prevalere dell’etimo rispetto al nome della pianta. Forse perché troppo colto, benché usato anche da Virgilio e già consegnato alla gloria della stilizzazione estetica dai capitelli corinzi.
Fatto sta che nel nostro immaginario le spine sono un ulteriore strumento di tortura del Cristo dopo la flagellazione. I soldati devono invece aver ritorto le foglie dai margini pungenti dell’Acanthus spinosus, simili a quelle dei cardi, sostituendole a quelle dell’alloro o d’altra nobile fronda, a ulteriore dileggio del re dei Giudei.
Nonostante l’aggettivo, qualche spinosità ce l’ha pure il comune Acanthus mollis, ma connota le brattee dell’asse fiorale. Grande erbacea perenne l’acanto, e non solo per le dimensioni, è una risorsa formidabile per riempire le zone umide e in ombra di parchi e giardini, anche per l’energia esplosiva delle capsule fruttifere che proiettano i semi a distanza: in breve giro di stagioni, ti trovi con nuove piante in ogni dove, nell’indecisione se lasciar loro colonizzare i nuovi approdi o levarle.
Le foglie basali di lucido verde, lunghe fin quasi un metro, con il profilo inciso da profondi lobi dentati, formano ampi cespi da cui alti si ergono, tra aprile e giugno, i fusti sublegnosi della spiga fiorale di notevole impatto estetico. Vi si innestano fitti i calici composti da un rigido cappuccio viola e dalla più morbida corolla, ridotta a un labbro inferiore bianco trilobato, a cui sono saldati quattro stami e lo stilo.
L’ékfrasis inarrivabile è, come di consueto, di Giovanni Pascoli che al Fior d’acanto ha dedicato queste strofe saffiche (1896) poi accolte nella quarta edizione di Myricae:
Fiore di carta rigida, dentato
petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello;
fiore che ringhi dai diritti scapi
con bocche tue di piccoli ippogrifi;
fior del Poeta! industrïa te d’api
schifa, e tu schifi.
L’ape te sdegna, piccola e regale;
ma spesso io vidi l’ape legnaiola
celare il corpo che riluce, quale
nera vïola,
dentro il tuo duro calice, e rapirti
non so che buono, che da te pur viene
come le viti di tra i sassi e i mirti
di tra l’arene.
Lo sa la figlia del pastor, che vuoto
un legno fende e lieta pasce quanto
miele le giova: il tuo nettare ignoto,
fiore d’acanto.
Ma c’è una pianta sudamericana che dalla Passione di Cristo prende il nome: la Passiflora caerulea, una rampicante perenne suffruticosa. La composita struttura del fiore ha sollecitato nei missionari Gesuiti del Seicento l’analogia con i simboli cristiani della morte di Cristo: il perianzio, composto da cinque petali e cinque sepali biancastri, alloga una doppia corona di filamenti, azzurri gli esterni, porporini e più corti gli interni (assimilata perciò alla corona di spine), dal centro si alza la colonna (quella della flagellazione) dove, poco sotto l’ovario, si innestano i cinque stami con le antere a perpendicolo (i martelli); infine, sopra la sfera ovarica, ecco i tre vistosi e bruni stimmi capitati (i chiodi).
E non è finita qui. Il Vangelo di Matteo è l’unico a parlarci del pentimento e del suicidio di Giuda: «Ed egli, gettate le monete d’argento nel santuario, si ritirò e andò a impiccarsi» (27, 1, 5). Altro non si dice, né si precisa il luogo e il modo. Ci viene allora in soccorso la fantasia popolare che ha individuato l’Albero di Giuda nel Cercis siliquastrum, un alberello delle Fabaceae originario del bacino del mediterraneo orientale. Ha portamento contorto, belle foglie alterne e reniformi, che si aprono dopo i fiori dal colore vivace, tra il rosa e il violetto. Questi, riuniti in densi mannelli distribuiti sui rami e persino sul tronco, offrono uno spettacolare colpo d’occhio primaverile. Simili ai fiori dei fagioli o della ginestra, come quelli sortiscono in baccelli bruni che persistono stretti sulla pianta durante tutto l’inverno.
Non si può tacere di un’altra leguminosa proveniente dal Nordamerica, la Gleditsia triacanthos, altrimenti nota come Spino di Giuda o Spinacristi, presente anche in Italia come pianta ornamentale. Esistono infatti varietà come la Sunburst dai germogli giallo oro, bellissimi tra maggio e giugno, o la Ruby lace dalle foglie porpora.
Simile alla Robinia pseudoacacia, porta però foglie paripennate e robuste temibili spine lungo il tronco e sui rami. A farla riconoscere d’acchito, più dei modesti racemi florali, sono i lunghi vistosi baccelli bruni, eduli anche per gli umani se colti giovani, e poi bolliti. Custodiscono semi di cui van ghiotti gli scoiattoli. Faremmo un buon servizio per le loro scorte invernali se accogliessimo una Gleditsia nel nostro giardino.