Geoff Dyer, la fotografia e l'istante senza fine
Pubblicato per la prima volta in inglese nel 2005, poi da Einaudi nel 2007 e ora giustamente ripubblicato dal il Saggiatore, il libro di Geoff Dyer L’infinito istante. Saggio sulla fotografia (traduzione di Maria Virdis, 2022, pp. 390) è diventato in breve tempo un classico, un testo che non può mancare nella biblioteca di chi ama la fotografia o di chi è interessato al linguaggio del visibile. Un apprezzamento meritato, ma anche un po’ anomalo: Dyer non è infatti un critico o uno storico della fotografia, neppure un filosofo di cultura visuale e neanche un fotografo (è lui stesso a dichiarare di non avere neppure una macchina fotografica).
È invece uno scrittore di successo, tradotto in ben ventiquattro lingue, capace di spaziare tra narrativa e saggistica con opere che sfuggono a ogni tentativo di incasellarlo in un genere preciso. Al fascino della sua scrittura limpida e precisa, nutrita anche dalle opere dell’amato John Cheever, corrisponde un approccio da flâneur che lo porta ad attraversare mondi diversi, dal cinema alla fotografia, dalla musica alla letteratura. Dunque, a dispetto del titolo italiano – L’infinito istante.
Saggio sulla fotografia – il suo libro non è affatto un ennesimo saggio sulla fotografia: è un viaggio-racconto libero e fluido negli Stati Uniti visti attraverso le fotografie soprattutto di autori americani che si sono confrontati con il suo vasto e complesso mondo umano, cittadino e paesaggistico. Alla logica ormai dominante dello specialismo storico e critico egli contrappone un atteggiamento aperto e multidisciplinare, capace di intrecciare suggestioni letterarie, notazioni sulla vita e la poetica degli autori, il tutto a partire dalle immagini che osserva e che loro hanno scattato. Dyer, infatti, non spiega le fotografie, ma le racconta a partire da una osservazione attenta, da un vedere appassionato e incuriosito che si concentra sulle immagini e sulle biografie di chi le ha realizzate. Non a caso uno dei suoi ultimi libri legati alla fotografia, che ci auguriamo venga presto tradotto in italiano, ha per titolo See/Saw: Looking at photographs.
Le sue sono storie di fotografi che a volte si annodano tra loro, così come simili – o ricorrenti nel tempo – sono i soggetti da loro ripresi: cappelli da uomo, scale, letti sfatti fotografati da Jack Leigh, Walker Evans e Nan Goldin; panchine spesso un po’ malinconiche al centro delle immagini di Lartigue, André Kertész, Garry Winogrand; strade deserte che sembrano avanzare verso il nulla nelle foto di Dorothea Lange, Robert Frank, Garry Winogrand e Michael Ormerod; scatti fatti dalla finestra di Edward Steichen, Merry Alpern, William Gedney e soprattutto da un W. Eugene Smith immerso nella depressione e nelle anfetamine.
Smith che fotografa in solitudine, dalla finestra di casa sua, una New York plumbea con auto che passano, uomini solitari, gente che fa consegne o cammina sotto la piaggia… Il testo del libro segue e insegue categorie e temi facendoli scivolare gli uni negli altri in modo fluido ed elastico sulla base delle intuizioni e delle curiosità di Dyer, che li usa come punti di partenza per approfondire e raccontare la fotografia nota, e meno nota, del Novecento.
Non a caso, già nelle prime pagine del libro, egli cita una frase significativa di Dorothea Lange «sapere in anticipo che cosa stai cercando significa che stai solo fotografando i tuoi preconcetti, cosa che è molto limitante». Così lui parte da una traccia di temi, ma poi avanza nella scrittura senza avere schemi rigidi nella mente, ci accompagna in un viaggio dove la griglia statica della tassonomia si scioglie nella forma libera di racconti e storie che inseguono un soggetto, poi deviano e si aprono a nuove narrazioni, a nuovi acuti approfondimenti.
Ma perché Dyer è partito dall’idea di voler confrontare il modo con cui vari autori hanno fotografato soggetti spesso simili? È lui stesso a dichiarare: «ho voluto guardare le fotografie per vedere quale nuova conoscenza avrei potuto trarne (…) Volevo anche imparare di più sulle differenze tra certi fotografi, o almeno diventare più sensibile (…) Volevo vedere se lo stile può essere identificato nel e dal contenuto, se è inerente a esso. L’unico modo per farlo era vedere come persone diverse fotografavano la stessa cosa». E dunque riflettiamo sul titolo originario del libro: The Ongoing Moment.
Titolo davvero poco traducibile in italiano, ma che indica chiaramente il filo conduttore seguito dall’autore: ovvero l’istante/il momento che continua, in sviluppo, che è aperto nel tempo ma simultaneamente ritorna su se stesso. Momento che può risultare a propria un tema ricorrente, che accumuna immagini di autori a volte in rapporto tra loro o a volte no, i quali danno dello stesso soggetto interpretazioni e letture un po’ simili, quasi si volessero citare a vicenda, oppure propongono significati diversi o addirittura antitetici. Il risultato del suo testo, dove s’intrecciano riflessioni sulle immagini guidate da un gioco di assonanze e differenze, è così quello di creare tra i vari fotografi che affronta un dialogo costante, una conversazione a più voci.
Prima di iniziare la sua sinfonia di temi ricorrenti Dyer, con grande acume, parte però da una premessa estremamente significativa: come si sono rapportati gli autori, che poi prenderà in considerazione, con i loro soggetti, quali strategie o atteggiamenti hanno adottato rispetto alla realtà? Fotografano di nascosto o stabiliscono una relazione umana con i loro soggetti, costruiscono la scena con il loro coinvolgimento attivo oppure colgono al volo ciò che si para dinnanzi agli occhi? È infatti a partire da come i diversi fotografi si relazionano con i loro soggetti a determinare vistose analogie o differenze incolmabili. Strand, che era convinto di poter «cogliere una qualità dell’essere per il fatto che la persona non sapeva di essere fotografata», crea la sua immagine più famosa, Blind Woman (1916) fotografando da vicino una donna cieca, ovvero il volto di una persona che non può vederlo. Non ha bisogno del «mantello di invisibilità» di cui parla Dorothea Lange e di conseguenza non sente la necessità di passare inosservato: non poteva proprio essere visto.
Tutto all’opposto Garry Winogrand fotografa a raffica incurante che sia notato oppure no dai suoi soggetti: la sua immagine con un cieco non è più un ritratto simbolico – come in quella di Strand – ma è inserita all’interno di una strada animata e brulicante dove egli coglie il momento in cui una donna lascia cadere una moneta nella sua tazza di mendicante. Il suo approccio è cioè quello di chi usa la macchina fotografica immerso nella realtà, preso e coinvolto da tutto quello che gli accade attorno. Ancora diversa è la pratica di Philip-Lorca diCorcia che – come racconta Dyer – quando decise di fotografare prostitute e transessuali, li pagò affinché accettassero di posare nelle ambientazioni che lui aveva scelto.
Poi Dyer narra di come Walker Evans – tra il 1938 e il 1941 – realizzò una serie di ritratti di viaggiatori della metropolitana di New York con una macchina nascosta nel cappotto che lo obbligava – come a voler rovesciare il senso e l’approccio della fotografia di Strand – a fotografare “alla cieca”, senza poter vedere che cosa esattamente la macchina fotografica avrebbe inquadrato.
Da qui l’autore parte nel suo viaggio tra le immagini, inanellando e commentando altri scatti realizzati nella metropolitana di New York (come quelli di Bruce Davidson fatti negli anni ’80), per poi soffermarsi su varie fotografie di musicisti ambulanti che paiono ciechi, tanto sono concentrati nella musica, e quindi approfittare di altri immagini di musicanti, scattate questa volta da André Kertész, prima in Ungheria e poi negli Stati Uniti, per raccontarne la vita di esiliato, dominato da un costante senso di malinconia e nostalgia per la sua patria ormai persa (Kertész fu in effetti visto con le lacrime agli occhi mentre sfogliava e commentava il proprio libro Hungarian Memories).
Ma, per fare un esempio più preciso sul modo di procedere di Dyer, partiamo da un tema su cui lui si sofferma più volte: le tipiche “superclassiche” staccionate bianche di legno che in America delimitavano, nella maggior parte dei casi, i giardini delle abitazioni. La prima immagine di staccionata di cui Dyer scrive è quella, decisamente iconica, di Paul Strand, White Fence (Port Kent, New York, 1916) dove lo steccato bianco appare frontale, in primo piano, mentre sullo sfondo si stagliano le facciate di alcuni edifici come quinte geometriche. Questa fotografia è quasi un simbolo del mondo americano e al contempo un punto di svolta nella carriera di Strand che influenzerà molta della fotografia successiva degli States.
Eccitato dalla sfida artistica del postimpressionismo e del cubismo, Dyer ci racconta come Strand si chiedesse «come costruire un’immagine, in che cosa consiste un’immagine, come si relazionano fra loro le forme, come si riempiono gli spazi, in che modo il tutto debba avere una sorta di unità». Il risultato è, appunto, un’immagine forte e precisa, dai piani perfettamente costruiti ed equilibrati che evita «di descrivere una condizione interiore dell’essere» – come scrive lo stesso fotografo – per concentrarsi sul messaggio e il significato delle cose che egli vede.
La seconda immagine, che Dyer interpreta come una sorta di omaggio a quella di Strand, è dell’inglese Michael Ormerod (un autore poco conosciuto in Italia) sulle cui immagini egli si sofferma più volte nel libro. Qui la staccionata bianca è vista un po’ di scorcio, ma soprattutto è notevolmente danneggiata e fracassata in un punto, come a indicare metaforicamente la rottura dell’ordine e del sogno americano.
D’altra parte tale immagine Dyer l’ha vista per la prima volta sulla copertina del libro The Journals of John Cheever, il diario di questo grande scrittore, dove tra fallimenti e tomenti personali e famigliari emerge l’amore e la nostalgia per un’America dove gli stili di vita del passato sono in via di estinzione. «Ormerod sta quindi suggerendo che la tradizione iniziata da Strand è stata interrotta? O che è abbastanza resistente da adattarsi comunque alle rotture e alle rivoluzioni interne? La foto solleva questioni senza nemmeno porle» – commenta Dyer. In fondo, è proprio l’enigmaticità senza domande delle immagini a coinvolgerlo, a spingerlo a chiedersi (e a chiederci) che cosa vogliono dirci, suggerirci a bassa voce o imporci con la loro forza laconica.
Il gioco delle ricorrenze e delle immagini che ritornano si condensa poi alla fine del libro quando, tralasciando volutamente di affrontare le immagini più note di Edward Weston, che con coraggio definisce un’«infinita drogheria/supermercato di forme», si concentra su quelle più tarde e meno conosciute, ovvero le foto realizzate in un viaggio attraverso l’America con la giovane moglie Charis fra il 1937 e il 1939.
Qui, abbandonata la logica delle “forme-scultura” che l’avevano reso famoso, Weston si apre all’elemento umano e ai segni che la sua presenza lascia nel territorio. Dyer si sofferma allora su una foto di Weston scattata alla tomba di un bambino e scrive: «La cosa che colpisce di questa immagine, comunque, è come la tomba sia circondata da una staccionata che la rende commovente come un funebre box per bambini. Ma non è una staccionata qualunque: è quella bianca di Strand. Il modo in cui Weston vede la tomba è determinato ed elaborato da Strand». Che Weston abbia voluto citare Strand consapevolmente, o l’abbia fatto invece inconsapevolmente, è questo dialogo continuo tra gli autori e le loro fotografie che Geoff Dyer ricerca.
In altre parole, è il desiderio di porre in relazione vicende e opere che attraversano tempi e luoghi ad animare questo libro. Il che ne rende appassionante per noi la lettura. Infatti, nel portare a termine il suo intento, Dyer compie una piccola ma indicativa, operazione “rivoluzionaria”: anziché dividere le poetiche degli autori, esponendole in ordine cronologico come tanti soldatini incapaci di parlare tra loro, capovolge il tavolo da gioco della storia della fotografia e scompagina le carte per ricomporle mettendo al centro il confronto, il dialogo, le differenze e le somiglianze.