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“Totò a colori”, 1952 / Le metamorfosi di un burattino
La genesi di Totò a colori (1952), come il titolo suggerisce, è legata alla volontà dei produttori Ponti e De Laurentiis di sfruttare il nome del comico italiano numero uno per lanciare il nostrano Ferraniacolor nel lungometraggio di finzione. Detto fatto, la sceneggiatura viene messa insieme alla sans façon, collazionando alcuni dei migliori sketch dell'attore napoletano: gli esistenzialisti a Capri («Come nasci?» «Beh, nascio come nasciono gli altri»), il vagone letto («Eh, chi non lo conosce, quel trombone di suo padre!»), la marcia dei bersaglieri. La regia è inizialmente affidata a Steno e Mario Monicelli, che hanno già diretto Totò in altri quattro film, inclusi i campioni d'incassi Totò cerca casa e Guardie e ladri. Strada facendo, Monicelli abbandona il progetto e Steno rimane da solo al timone dell'impresa. Uomo colto e disincantato, si barcamena come può fra le difficoltà tecniche (lo «scatafascio di luci» descritto in un'intervista da Isa Barzizza, necessario per impressionare la nuova pellicola) e i limiti del budget. Per sua fortuna, può contare sull'estro del protagonista. Steno vi si affida ciecamente, al punto di ammettere, anni dopo: «Era come se avessi dato la macchina da presa in mano a Totò». Per quanto dettata dalla necessità, l'intuizione si rivela vincente: non solo infatti il film è un successo commerciale (le cronache dell'epoca parlano di «affluenza di pubblico strabocchevole»), ma costituisce anche, per Totò, una sorta di “antologia privata”, già bell'e pronta per essere ri-antologizzata altrove, dalla televisione a Youtube.
Uno dei vertici di questa sgangherata ma irresistibile successione di numeri arriva quasi alla fine del film. Il maestro Antonio Scannagatti (uno dei tanti alter ego di Totò), partito alla volta di Milano per sfondare nel mondo della musica – pardon: della mosica – si ritrova invece inseguito dal cognato (Rocco D'Assunta), un siciliano da barzelletta, furibondo e armato di regolare coltello. Per sfuggirgli, il Nostro Eroe si rifugia nel retro di un teatrino di marionette, nascondendosi in un grosso baule insieme agli altri fantocci di legno. L'atmosfera è vagamente infernale, coi lampi verdastri che penetrano da un lucernario e gli inquietanti capoccioni di cartapesta che ammiccano sinistramente dalla penombra. Tutto sembra indicare, insomma, che presto avrà luogo un prodigio.
E infatti quel che accade subito dopo è qualcosa di splendidamente incongruo, imprevedibile e, direi, quasi magico. Nel suo Totò. Avventure di una marionetta, Roberto Escobar ha scritto che «entrando in quella cassa», Totò/Scannagatti varca «la linea fra l'organico e l'inorganico». Forse si tratta più che altro di un “passaggio di stato”, dall'umano al vegetale (un processo alchemico?). Quello che un attimo prima era un individuo in carne ed ossa, ora è un burattino: un Pinocchio, per la precisione. La macchina da presa carrella in avanti, scoprendolo inerte nel mucchio dei pupazzi, l'occhio vitreo, il naso lungo, le membra irrigidite, l'abitino a pois. Il film non fornisce alcun appiglio logico che prepari lo spettatore a una simile metamorfosi, e giustamente: Totò non ha bisogno di pretesti. Gli basta una situazione collaudata, come quella dell'uomo costretto dalle circostanze a fingersi altro – ora un oggetto (lo sketch del manichino, ripreso al cinema ne I pompieri di Viggiù e altrove), ora un pazzo (Totò all'Inferno), ora, appunto, una marionetta.
Con la sua «vocazione metamorfica e insieme teatrale», come l'ha definita Giorgio Manganelli, da trickster che cerca e continuamente sfiora la morte, Pinocchio non poteva non affascinare l'attore napoletano. E difatti la sua figura, insieme a quella di don Chisciotte, l'ha accompagnato fino alla fine: ancora negli ultimi anni, vagheggiava di portarla sul grande schermo con l'aiuto di Pasolini (contentandosi, alla peggio, del ruolo di Geppetto). La prima volta che Totò veste i panni del celebre burattino è in Volumineide (1942), la seconda delle grandi riviste scritte per lui da Michele Galdieri durante la seconda guerra mondiale; ma la propensione “marionettistica” dell'attore si era rivelata già molti anni prima, quando, esordiente, emulava gli avvitamenti di Gustavo De Marco, vedette del varietà partenopeo. (Nel 1949, l'allievo renderà omaggio al maestro nel film Yvonne la Nuit, interpretando Il Bel Ciccillo, suo cavallo di battaglia).
Volumineide si serviva del burattino per alludere in modo scoperto alla condizione degli italiani sotto il regime fascista, istupiditi dalla propaganda a “credere, obbedire, combattere”. Nella rivista Totò/Pinocchio spiega a Lucignolo (il fido Mario Castellani): «Qui le teste son di legno, ch'è proibito avere ingegno/ chi ragiona, in questo regno,/ non è degno di campà». Dopo la Liberazione di Roma, la satira diventa ancora più esplicita: nella rivista successiva, Con un palmo di naso (1944), Totò e Galdieri trasformano Pinocchio nella controfigura di Mussolini, quasi a ribadire l'omologia fra il burattino di Collodi e gli aspetti peggiori del carattere nazionale.
In entrambi i casi, tuttavia, siamo ancora all'attore che interpreta la marionetta, oppure – peggio – che le attribuisce un significato, di volta in volta satirico, politico o culturale. Tutti “fili” che imprigionano la marionetta, le impediscono di dare libero sfogo alla sua fondamentale anarchia. In Totò a colori, per sua (e nostra) fortuna, Totò se ne libera completamente: egli diventa una marionetta, e il risultato è puro “cinema delle attrazioni”.
Nella buca, l'orchestra attacca con The Parade of the Tin Soldiers. Sul palco, Totò inizia a muoversi, come se fosse la musica a restituirgli la vita. Quando gira questa sequenza, l'attore ha già superato i cinquant'anni, ma la mobilità delle articolazioni è ancora stupefacente: gli spostamenti del collo, di lato e in avanti, a seguire il ritmo della marcetta (o forse è il contrario?), la smorfia con la lingua di fuori, lo strabuzzar degli occhi. Ipnotizzati da un simile spettacolo, il cui potere suggestivo è accresciuto dai colori rutilanti ed eccessivi del Ferraniacolor, quasi non facciamo caso ai brevi inserti (probabilmente messi lì da Steno per rattoppare qualche inquadratura sbagliata) di Rocco D'Assunta. Nascosto fra le quinte, il volto torturato dal dubbio, senza saperlo l'attore siciliano esprime meglio di qualsiasi spiegazione il concetto freudiano di Unheimliche. Quella “cosa” che si muove sul palcoscenico è ancora un essere umano? I burattinai, dal canto loro, si rendono conto che non ha bisogno di fili, e non sanno che pensare. Soltanto i bambini, in platea, sorridono beati, senza porsi troppi problemi.
(Per inciso, il senso di meraviglia e l'esaltazione che provo davanti a questa scena mi sembrano più forti oggi rispetto alla prima volta che la vidi in televisione, all'interno di una specie di “blob” totoesco. Avevo dieci anni e una forte influenza: dalla combinazione fra la colorata performance dell'attore e la febbre altissima scaturì una specie di esperienza lisergica che non ho più dimenticato).
Il numero si conclude con la marionetta che si affloscia, al suono dell'ultimo colpo di grancassa, a ridosso di una quinta. «D'improvviso», scrive ancora Escobar, «il corpo di legno passa dalla gioia astratta della vita meccanica al silenzio d'un disperato niente». Certo, per togliere ogni dubbio e non far preoccupare troppo il pubblico, Totò si rivela ai suoi piccoli spettatori togliendosi il lungo naso finto e accennando col capo un ringraziamento. E il film può ripartire senza intoppi, arrivando nello spazio di poche inquadrature alla prevedibile apoteosi finale.
Secondo Antonio Costa, sicuramente Pier Paolo Pasolini aveva in mente questa sequenza, mentre si accingeva a realizzare il corto Che cosa sono le nuvole? (incluso in Capriccio all'italiana, 1968). O forse no, se è vero che in un'intervista arrivò a definire «un obbrobrio» il film di Steno. Costa ha invece ragione quando osserva che Pasolini fa compiere all'attore un “percorso inverso” rispetto a quello di Totò a colori. Come in una pinocchiata alla rovescia, dall'uomo che per necessità si finge burattino si passa al burattino che si pone domande troppo umane sul proprio posto nel mondo. E per marcare anche visivamente la sua “dis-umanità” di fantoccio, il regista – geniale intuizione coloristica – gli dipinge la faccia di verde.
Il ruolo di Jago in questa sorta di rivisitazione squisitamente plebea dell'Otello di Shakespeare (vi recitano anche Ninetto Davoli, la coppia Franchi & Ingrassia e Carlo Pisacane) è l'ultima interpretazione cinematografica di Totò, che morirà all'improvviso poche settimane più tardi. Un congedo quasi molièriano, per una maschera che aveva raggiunto ormai una sorta di «decrepita saggezza» (l'espressione è di Pasolini) e che muore in scena assaporando l'insondabile mistero della vita (le nuvole del titolo), ma anche consapevole della «straziante, meravigliosa bellezza del creato».
Mentre vado a concludere, mi rendo conto che sto nuovamente imbrigliando il burattino coi “fili” dei significati e delle metafore. Nella sceneggiatura originale, Pasolini mette in bocca a Totò/Jago una bellissima e fin troppo barocca allegoria della condizione umana (tanto che il regista deciderà alla fine di tagliarla): «La nostra vita è come una polenta. Prende la forma della caldara dov'è rovesciata. Ma qual è questa forma? La forma della superficie della polenta contro la caldara, o la forma della parete della caldara che contiene la polenta? Noi siamo la polenta, e il giudizio degli altri è la caldara...».
Ho l'impressione che nella sua lunga carriera Totò si sia spesso imbattuto in “burattinai” di varia statura e alterne ambizioni, che cercavano di addomesticare la sua inesauribile verve (penso al Pasolini di Uccellacci e uccellini, al Rossellini di Dov'è la libertà, perfino, in parte, al Monicelli di Totò e Carolina); e in altrettante “caldare” pronte a contenere in una “forma” definita la sua maschera proteiforme, invocando, a seconda dei casi, “più umanità”, “più contegno”, “più decoro” nelle interpretazioni. Senza capire, invece, che le ragioni più autentiche della sua grandezza consistevano proprio in quella continua inquietudine metamorfica. Tutto sommato, mi sembra che Totò se la sia cavata benissimo anche così, svincolandosi – quando poteva – dai fili e dai laccetti, e “morendo” infine, suprema beffa per i “normalizzatori”, da burattino e non da bambino perbene.