Piatta è piatta / Pianura

25 Gennaio 2021
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Il danese e le centurie

 

Piatta è piatta. Su questo non c’è alcun dubbio. Si stende a perdita d’occhio interrotta solo da filari di pioppi e piccoli boschetti sopravvissuti alle trasformazioni agricole dell’ultimo secolo e mezzo. Se provi a camminare, la cosa migliore è seguire uno dei tanti canali che tracciano direttrici dentro il piatto senza fine. Non procedere lungo la strada, perché potrebbe essere pericoloso anche di giorno, sebbene raramente passi qualcuno, e quando sfreccia un’automobile lungo il rettifilo, è meglio scendere nel fossatello laterale e lasciarla passare, anche a costo di bagnarsi le scarpe, perché, salvo i mesi caldi, un po’ d’acqua reflua c’è sempre.

 

Il fatto è che non è bene stare sull’asfalto a fare da bersaglio. Dato che qui nessuno cammina lungo la strada, le vetture si lanciano ad alta velocità, una piccola ebbrezza da queste parti – tutti piloti in Emilia – e manco ti vedono. Tu sei un puntino all’orizzonte, un puntino che non si vede neppure, al massimo sei poco più grande di un moscerino e quando t’inquadrano sul vetro del parabrezza, sono già oltre e probabilmente ti hanno urtato; se ti va bene, sbattuto giù nel canale. Dove è meglio, data la situazione, scendere da sé.

 

La lettera ce l’ho in tasca e nel paese dove sono arrivato adesso ho cercato un’osteria dove mettermi a leggerla davanti a un quartino di vino, o meglio ancora aprendo una bottiglia di Lambrusco, magari insieme a una punta di parmigiano reggiano, tanto per gustare il sapore del formaggio di qui, e lì dentro il sapore delle mucche e dell’erba medica che hanno mangiato per fare il latte, da cui viene tanto, almeno qui. Ma ho fatto male i conti con l’oste, come si dice, perché di vecchie osterie non ne ho trovata nessuna, per quanto tu mi avessi detto che c’era. Dove? Sono sceso dall’auto all’imboccatura del paese e me lo sono fatto avanti e indietro, sia per la strada centrale – cardo o decumano?, mi chiedevo – sia nelle stradine che ci sono. Poche, ma ci sono.

 

Bencini Comet

 

Lo sai che qui da noi nella pianura tutto sembra annodato, tutto si rimanda, ed è una strana sensazione d’appartenenza a qualcosa che c’era prima di noi e ci sarà dopo di noi, qualcosa che ci rende sereni, anche se a volte ho l’impressione che sono dovuto uscire da quell’incanto, andarmene via, lontano, per vederlo meglio. Forse ho cominciato a vedere bene solo quando sono apparse nel mio orizzonte le foto di Luigi. Vedevo da fuori quello che avevo dentro. Quando si è legati e troppo a un luogo, questo, oltre a rassicurarti, finisce per imprigionarti. Noi cerchiamo il già conosciuto, quello che ci appartiene, e, appena l’abbiamo, sentiamo che è lì come stare in carcere, per cui è necessario evadere. Le fotografie di Luigi Ghirri hanno dato forma a quel luogo che era mio, anche tuo, e che ora potevamo guardare con piacere, senza temere la cattura. Sono fotografie serene, comunicano serenità. Sono fotografie della memoria.

 

Una volta Celati mi ha detto che quando Luigi aveva comprato la casa di Roncocesi di sera accendeva tutte le luci nelle stanze e poi usciva per guardarla da fuori, per contemplarla. Era la casa della sua infanzia che vedeva? Una casa che non esisteva se non nei suoi sogni e nelle sue immaginazioni? O forse era la casa che aveva visto una volta, tanto tempo fa, ed era rimasta impigliata nei suoi ricordi. La casa del sogno. Per questo ho deciso di tornare là.

 

Gianni o del camminare

 

Un giorno arriva la notizia che il collettivo ha pubblicato un libro intitolato Alice disambientata. Chiedo in giro, nessuno lo possiede. Forse non è ancora uscito in libreria. Ho cercato alla Feltrinelli di piazza Ravegnana, ma non c’è. Si mormora che sarà presentato al Dams. Ci vado. L’aula è affollatissima. Fatico a entrare. Non c’è posto. Allora mi siedo davanti per terra, vicino alla cattedra. Sono già in molti anche lì; almeno si vede il tutto da vicino. Dietro la cattedra c’è Gianni Celati. Ha davanti a sé una pila di libri. Sarà Alice disambientata? Si mette a parlare. Brusio nell’aula. Dietro di me sento che le persone si stanno muovendo, ondeggiano e la loro energia arriva sino a me. Devo spostarmi?

 

Celati è in piedi e di colpo comincia a lanciare i libri. I volumi passano sulle nostre teste. Una mano appena dietro di me si protende per afferrarne uno al volo, lo tocca. Il libro rimbalza e quindi finisce sulla mia testa. Lesto l’afferro. Capisco che non ci saranno altre parole. Alice è volata per aria e quindi il più e il meglio è andato. Mi alzo a fatica ed esco. Ho paura che qui succeda come in un’altra aula del Dams. Settimane prima si dice che si era aperto un buco nel pavimento, forse per il troppo peso degli studenti o perché qualcuno aveva cominciato a saltellare sul vecchio impiantito del palazzo. Così si dice.

 

Scendo le scale e sono fuori. Cerco un posto lì vicino dove andare con il libro, che ho afferrato. Trovo un bar. Non c’è nessuno. Celati deve essere ancora su, al primo piano con quelli del collettivo.

 

[…]

 

Ph. Luigi Ghirri


Gianni è sempre stato un ragazzo, anche quando l’ho rincontrato e non era più il giovane professore del Dams.

 

Aveva più di cinquant’anni, eppure ne dimostrava trenta. Indossava jeans d’estate e pantaloni di velluto a coste d’inverno; i capelli lunghi e un ciuffo che ogni tanto spostava con le mani. Camminava con le sue scarpe da tennis oscillando leggermente la testa: dinoccolato, a tratti sembrava barcollare, ma non cadeva mai. Aveva sempre uno strano modo di parlare, molto manierato; era il suo modo emiliano di rivolgersi all’interlocutore in forma affettuosa; a volte non si capiva bene cosa stesse dicendo: faceva degli improvvisi salti logici e ti spiazzava. Era imprevedibile. Mentre ti parlava ti afferrava il braccio o metteva la mano sulla spalla: un modo per essere in contatto.

 

Più d’una volta ho pensato che fosse una specie di nobile homeless, perché era trasandato, seppur in modo elegante: un’eleganza trascurata. Insomma, ha sempre posseduto un suo stile, che probabilmente è la cosa più difficile da avere. Parla con tutti, anche con gli sconosciuti per la strada, con un modo di fare sempre partecipato, per quanto poi si capisce che è distaccato, una strana forma di distacco. Meglio: è preso da altro. A tratti infatti appare lontano, trasferito con la sua mente in qualche angolo remoto; la sua testa, lo si capisce quando parla, non è mai ferma: continuamente corre verso qualcosa che cerca, pur tornando sempre al punto di partenza. Un punto cieco, che non è facile da cogliere.

 

I Giganti del Po

 

Ti voglio raccontare una storia. Comincia in un mare in tempesta alle foci del Po. L’acqua è color marrone, schiumosa e scura. Durante la notte tutto poi si colora di nero. All’alba una barca avanza tra i flutti; sbatte da un lato e dall’altro. Le onde la ricoprono, scompare e riappare. Si vedono cinque Giganti al centro dell’imbarcazione. Stanno risalendo il fiume con cinque attori posti al loro interno; li accompagnano anche tre cantastorie e due mimi. Sono diretti verso Milano attraversando tutta la Pianura. Durante la burrasca i cinque attori sostengono i Giganti.

 

La barca improvvisamente fa naufragio sotto riva e i grandi pupazzi vengono salvati a fatica dalle acque. Sono tutti inzuppati e perciò vengono deposti sull’argine in attesa che il sole li asciughi. Qualcuno li ha visti cadere in acqua? Cosa dirà la gente dei paesi vicini? C’è ancora qui sulle rive del Po qualcuno che crede ai Giganti?

 

I cinque sono: il Re, la Regina, la Principessa loro figlia, il Cavaliere e il Mago. Sulla riva il cantastorie si mette a narrare la vicenda dei Giganti: il Re è un re senza trono e in esilio; la Regina non reca con sé nessun gioiello; la Principessa spera invece di incontrare un amore; il Cavaliere non trova più altri cavalieri e li sta cercando ovunque; il Mago non ricorda più come fare le sue magie. I Giganti si sono asciugati e perciò cominciano ad andare.

 

Arrivano alle cascine e ai paesi circostanti senza alcun preavviso. Si palesano là dove non sono attesi. Gli attori hanno deciso di vedere come reagirà la gente. Vogliono proporre la storia dei cinque Giganti e ascoltare nel contempo le storie che le persone vorranno raccontare loro. Ogni tanto i cinque pupazzi stramazzano per terra, corrono, ballano e fanno altri movimenti sostenuti dagli attori. Quando questi escono dai Giganti, il cantastorie li presenta agli astanti e dice: Stiamo andando a piedi verso Milano, abbiamo fatto naufragio. Perché, chiede la gente? Per vedere se a Milano li accolgono, risponde il cantastorie.

 

Voce

 

Quando Giovanni Ferretti si è messo a cantare, ora te lo posso dire, per me è stata una sorpresa. Non sapevo che sapesse cantare e poi con quella voce. E ancor di più quando la stessa voce ha cominciato a uscire dai dischi che incideva, prima coi CCCP e poi con i CSI, con i PGR e infine da solo, come Giovanni Lindo Ferretti. Mi sono chiesto varie volte com’è la voce di Giovanni, la voce che ha usato per diventare un artista. Se chiudo gli occhi sento risuonare nelle mie orecchie la sua voce: a casa sua, per strada, al telefono quando lo chiamo al Cerreto, o quando mi chiama lui da lì.

 

[…]

 

Spesso mi domando che cosa mi racconta di una persona la sua voce. Ascolto in silenzio le voci che escono dalla radio mentre sono in automobile, oppure la voce contenuta nel telefono, in quello fisso di casa o nel telefono mobile, che porto con me ovunque da diverso tempo: non conosco chi parla, ma lo riconosco dalla sua voce. Però più che le voci di sconosciuti o sconosciute sono le voci delle persone che conosco a interessarmi maggiormente, perché nelle voci degli amici ci sono misteri che né la vista né il tatto riescono a svelare.

 

Inverno

 

La pianura non ha tempo; il tempo lo scandisce a modo suo nonostante l’autostrada, le tangenziali cittadine e le superstrade che l’attraversano di solito da nord a sud. Nonostante tutto è rimasta uguale a se stessa: piatta, è davvero piatta, e chi si alza al di sopra di lei commette un grave gesto di presunzione.

 

Bisogna stare schisci, come si dice a Milano, schiacciati a terra, per non farsi vedere. Così abbiamo fatto per secoli; la ragione, come ha detto una volta Miki, risiedeva nella necessità di non farsi scorgere dai popoli e dalle genti di passaggio, dai barbari che scendevano la Pianura e la razziavano. Non dovevamo farci notare, nascondere anche quel poco che avevamo, se volevamo sopravvivere, e così è stato per mille anni e oltre. Bassa è sempre bassa, anche se noi siamo diventati, di generazione in generazione, sempre più alti. Ma è stato un caso, un fatto fortuito. Lei sta rasa a terra per necessità e per modestia.

 

Letture di Ermanna Montanari da Marco Belpoliti, Pianura, Einaudi 2020, in libreria da domani, martedì 26 gennaio. 

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