Nelly Sachs, l’arca dell’istante
Le poesie di Nelly Sachs, Negli appartamenti della morte, scritte a partire dal 1943, sono pubblicate nel 1947 dall’editore Aufbau e appaiono per la prima volta oggi, in traduzione italiana completa, per l’editrice Giuntina nel 2024, a cura di Anna Ruchat. Il libro si suddivide in quattro sezioni: Il tuo corpo in fumo per l’aria, Preghiere per il fidanzato morto, Epitaffi scritti nell’aria e Cori dopo la mezzanotte. L’epigrafe dell’intero libro non potrebbe essere più incisiva: Meinen toten Brüdern und Schwestern (Ai miei morti, fratelli e sorelle). Il libro d’esordio della cinquantaduenne Nelly Sachs (Premio Nobel 1966) è, oltre ogni metafora, il Libro dei Morti: il libro scritto per coloro che non possono più parlare, dopo l’olocausto, ma che ancora vivono e rivivono nella parola che testimonia di loro. La prima poesia del libro (un adagio lento, tetro, sacro) è la più celebre testimonianza poetica sull’Olocausto: “OH I CAMINI / Sugli ingegnosamente progettati appartamenti della morte / Quando il corpo di Israele saliva in fumo nell’aria – / E, spazzacamino, lo accoglieva una stella / Che diventava nera / O era forse un raggio di sole? // Oh i camini! / Vie di libertà per la polvere di Giobbe e Geremia – / Chi vi ha progettato e pietra su pietra ha costruito / La via per i fuggiaschi di fumo? // Oh gli appartamenti della morte, / Resi invitanti / Per la padrona di casa altrimenti ospite – Oh voi dita / Che appoggiate la soglia / Come un coltello tra la vita e la morte – // Oh voi camini, / Oh voi dita, / E il corpo di Israele in fumo per l’aria!”. La poesia è preceduta da un’epigrafe dal Libro di Giobbe: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata / senza la mia carne guarderò Dio”. La potenza insostenibile ma compatta della voce di Nelly Sachs è tutta racchiusa in questi versi orgogliosi, fermi, dolenti. “La via per i fuggiaschi di fumo” è la sola via che percorrerà, libro dopo libro, poesia dopo poesia, variazione dopo variazione: suo basso continuo è la poesia estrema e disintegrata dell’amico Paul Celan, tormentata dagli stessi fantasmi. Scrive Nelly Sachs: “Nessun segnale né l’eco di un richiamo. Nessun cartello indicatore che possa mostrarci la rivelazione attraverso la cruna di un ago – niente – niente! Non so leggere le parole nei fondi di caffè – e dopo le tavolette dei sumeri, le carte da gioco sono diventate completamente illeggibili. Tutto è vecchio, debole, dimenticato, solo a volte si riconosce il profumo di un tempo” (LDN, pp. 42-43). Ma, se il mondo visto da Nelly Sachs è illeggibile e dimenticato, quel mondo ha sempre sete di un sacro che lo trascenda con gioiosa potenza. Osserva Anna Ruchat che uno degli assilli di Nelly Sachs nasce dal desiderio di raggiungere una parola diretta, non contraffatta, autentica, e così commenta: “Ho voluto trasformare questo assillo di Nelly Sachs nel mio ‘segnavia’ e ho cercato, traducendone i versi, di ‘premere’ il più possibile l’‘orecchio’ sulla parola, sulla pagina. Per questo, già nel titolo In den Wohnungen des Todes (“Negli appartamenti della morte”) ho preferito ad esempio accostare alla morte gli appartamenti e non le ‘dimore’, termine troppo alto, o le ‘abitazioni’, termine troppo neutro. Dai loro ‘appartamenti’, infatti, furono portati via gli ebrei, con tutto ciò che questi appartamenti avevano di domestico, più o meno accogliente, più o meno confortevole” (NAM, p. 125).
Un’invocazione si leva nel libro, sacra e terrena al tempo stesso, e quell’invocazione parla dell’energia estrema delle parole, pronte a balzare sul foglio a dire l’impossibile: “Noi pietre / Se uno ci solleva / Solleva tempi antichissimi – / Se uno ci solleva / Solleva il giardino dell’Eden – / Se uno ci solleva / Solleva la conoscenza di Adamo ed Eva / E la seduzione nutrita di polvere del serpente. // Se uno ci solleva / Solleva nella sua mano bilioni di ricordi / Che non si sciolgono nel sangue / Come la sera. / Perché noi siamo memoriali di pietra / Che comprendono tutto il morire” (NAM p. 103). Memoriali, aggiungo, che facciano scaturire la musica dalle pietre e credano non solo a questo mondo, che perseguita e uccide, ma a quell’universo invisibile la cui grazia può (deve) essere pensata/sognata. Scrive Nelly Sachs a Paul Celan: “Stoccolma, 9/1/1958. Caro poeta, caro essere umano Paul Celan, la Sua lettera ha portato anche questa volta tanta gioia ma, La prego, mi chiami per nome, ho la sensazione che il miracolo di aver conquistato un essere umano nonostante la lontananza debba essere festeggiato incontrandosi senza riserve, con la pura essenza di noi stessi… Per quanto mi riguarda è già una vera fortuna possedere qualche amico, ma, Lei mi capisce, caro poeta, avrei voluto anche qualcosa di diverso… Vi è in me, vi è sempre stato e vive in me con ogni mio respiro la fede in un’attività cui siamo stati chiamati: impregnare di dolore la polvere, darle un’anima. Io credo in un universo invisibile nel quale iscriviamo ciò che abbiamo inconsapevolmente compiuto. Sento l’energia della luce che fa scaturire la musica dalle pietre e soffro per la freccia della nostalgia, la cui punta ci colpisce subito a morte e ci spinge a cercare al di fuori, là dove l’insicurezza inizia a sciacquare via ogni cosa. Dal popolo al quale appartengo mi è venuta in aiuto la mistica chassidica, che, così come avviene per ogni altro genere di mistica, deve riportare ogni volta la propria dimora nelle doglie del parto, lontano da dogmi e istituzioni. Addio, e la benedizione sia con Lei. Sua Nelly Sachs” (CSC, p. 44). Le risponde Paul Celan: “[senza data, ca. 13.1.1958] Cara, sinceramente ammirata, Nelly Sachs, ieri l’altro, quando è giunta la Sua lettera, avrei voluto prendere il primo treno e venire a Stoccolma per dirLe – con quali parole poi? con quali silenzi? – di non credere mai che parole come le Sue possano rimanere inascoltate. Lo spazio del cuore, è vero, è rimasto in gran parte sepolto, ma l’eredità della solitudine di cui Lei parla verrà accolta qua e là, nella notte, proprio perché vi sono le Sue parole. False stelle ci sorvolano – certamente; ma il granello di polvere che la Sua voce impregna di dolore descrive l’orbita infinita. Suo Paul Celan” (CSC, p. 45, ibidem)
Entrambi ebrei, entrambi sopravvissuti alla Shoah dopo avere perso nei lager i loro cari, entrambi ricoverati in cliniche psichiatriche nei momenti drammatici della loro vita, Sachs e Celan lasciano un epistolario tormentato che inizia nella primavera del 1954 e termina nel 1969. Alla fine della Seconda Guerra mondiale Nelly Sachs è esule in Svezia, dove comincia a manifestare sintomi psicopatologici. Il suo tracollo è testimoniato da questo frammento epistolare: “Una lega di spiritisti nazisti mi perseguita in modo così orribilmente raffinato con il radiotelefono, sanno tutto, ovunque io metta piede”. Le lettere spedite a Celan ci mostrano il rapido insorgere della malattia psichica ed è paradossale (ma non più di tanto) che il suo grido di dolore si rivolga proprio al poeta che lascerà volontariamente la vita pochi mesi prima di lei, annegandosi nella Senna. Ma, dalle lettere del loro epistolario, la figura di Paul appare tranquillizzante come quella di un affettuoso terapeuta.
Due poesie, molto diverse ma simili, accomunano Sachs e Celan: di Nelly “OH I CAMINI” (la prima poesia, citata, di “Negli appartamenti della morte”), e di Paul “DIE TODESFUGE” (Fuga di morte), la composizione più celebre. Qui il poeta parla del tentativo di spalare “una tomba nell’aria”. Il 2 novembre 1959, ricordando a Ingeborg Bachmann che Fuga di morte è un epitaffio e una tomba, sottolinea che sua madre ha avuto diritto solo a quella sepoltura. Ma anche gli Epitaffi scritti sull’aria di Nelly Sachs, dal Giardiniere al Cieco, dal Veggente al Pellegrino, dall’Irrequieto alla Pittrice, sono brevi ritratti in versi dedicati a persone scomparse, simili ai discorsi funebri recitati prima che la bara venga interrata e che riassumono in parole esemplari la vita del defunto. Per Sachs le parole sono, fin dall’inizio della sua opera, tombe poetiche edificate nell’aria: tutta la sua poesia è un interminabile compianto di cui leggiamo le variazioni, scavate libro dopo libro in una preghiera ininterrotta. Osserva Chiara Conterno: “Al di là di qualsiasi polemica, mi pare interessante il fatto che più autori nello stesso periodo scrivano poesie sul tentativo di erigere monumenti sepolcrali nell’aria, versi che non solo rappresentano la triste, concreta realtà, ma che rivelano anche lo sforzo di dare sepoltura a chi non l’ha avuta, di restituire un minimo di dignità a coloro a cui è stata sottratta, di creare un luogo, seppur immaginario, in cui piangere i propri cari, ottemperando così al precetto del ricordo” (ESA, pp. 44-45). Turba, nella poesia metafisica e corale di Nelly Sachs, l’accenno vivissimo all’oggetto concreto e abbandonato, ad esempio una scarpa priva dell’essere vivo che la calzava. “Persa misura dell’uomo: io sono la solitudine / Che voi fratelli cercate in questo mondo – / Oh Israele, io sono un’eco del dolore / dei tuoi piedi, che risuona verso il cielo” (NAM, p. 87). O ancora: “Sei forse un nastro raccolto tra i capelli di un morto. / Entra nel miracolo, diventa pane. / Qui c’è un libro in cui circolano i mondi / E il segreto sussurra dietro una fenditura –” (NAM, p. 87). Chi legge entra nel cortocircuito tra il corpo inesistente del perseguitato, disperso in cenere, e la sua ultima traccia, che ancora ci commuove. Forse Nelly Sachs non condivide l’affermazione dell’amico Paul Celan: “Mi sento molto solo, sono molto solo, – con me stesso e le mie poesie (poiché mi considero un’unica e identica cosa con queste” (SMP, p. 55). La solitudine in Nelly è già trascesa. Le sue poesie, nella loro innodica cantilena, celebrano, al di là della loro forma, un dolore universale: “Potrebbe essere, potrebbe essere / Che ci dissolviamo in polvere – / Sotto i vostri occhi ci dissolviamo in polvere. / Cosa tiene mai insieme le nostre tele? / Noi, ormai senza soffio, / Noi, la cui anima è volata a Lui dalla mezzanotte / Molto prima che qualcuno salvasse il nostro corpo / Nell’arca dell’istante” (NMA, 92-93). È proprio “l’arca dell’istante” il simbolo essenziale della poesia di Sachs: l’epitaffio, il frammento, il ‘coro’ di parole in cui vive ancora la polvere dei corpi ebrei arsi nei forni crematori, arsi ma presenti nell’arca di parole che li accoglie dopo i tormenti terreni. In Oh notte dei bambini che piangono la poetessa scrive: “MA CHI VI HA TOLTO la sabbia dalla scarpe / Quando vi siete dovuti alzare per morire?” (NAM, p. 15). E, più oltre: “Oh voi dita / che avete tolto la sabbia dalle scarpe dei morti / Già domani sarete polvere / Nelle scarpe di coloro che verranno” (ibidem). La fatale Ananke dei morti non abbandona la voce di Nelly Sachs, che resta sempre nell’attesa di “un segnale, un volo d’uccello”, di una “premonizione” che realizzi, nel Regno ulteriore, la salvezza sognata. Essere poeta significa vivere responsabile della propria esperienza e dei propri sogni.