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Ricette immateriali (il fare) / Fivizzano: territori e altre retoriche
Ci sono territori che per le caratteristiche del clima e della geografia, per le necessità e le casualità della storia, per la persistenza della presenza umana o per la combinazione di tutti questi fattori, assumono caratteristiche immediatamente riconoscibili, tipologie di paesaggi e territori in qualche modo universali, patrimoni culturali più di altri in grado di insegnare la complessità dell’agire umano, più di altri da preservare; in una parola più di altri esempi di civiltà.
In questo senso, oggi non tutti i territori sono uguali.
Una parola territorio quanto mai attuale, pervasiva e apparentemente necessaria al riconoscimento di una propria identità, così come diventata quasi un’indispensabile patente di accredito per il turismo, l’economia, la politica.
Capita che ci si innamori di una parola e del concetto corrispondente. Una parola che diventa sorta di luogo comune linguistico, sbornia collettiva in forma immateriale.
È stato il caso del genuino intorno agli anni settanta e seguenti. Era la contrapposizione al cibo industriale che da decenni imperversava nel nostro paese; il cibo della modernità e del boom economico. Peccato che quella parola fosse palesemente inadeguata e fuorviante nell’opporre tradizione e modernità. Genuino infatti significa semplicemente aderente a una norma, a un canone. In questo senso, un formaggino spalmabile in un’industria alimentare della Lombardia era “genuino” come una caciotta prodotta in un casolare vicino a un ovile.
Inseguivamo la genuinità e quella sfuggiva nel carrello del supermarket come nei prodotti di venditori ambulanti più o meno “genuini”.
Non è quello che capita oggi con la parola territorio?
Retorica collettiva in formato ecologico affettivo, innamoramento linguistico verso piccole patrie ambientali e culturali dove sarebbe nascosto il meglio. Certo possibile e forse vero, forse...
Certamente Territorio sembra essere diventato passe-partout per il riconoscimento implicito di qualità e bellezza, di un valore culturale certo.
Spinosa questione quella di dare forma alla parola territorio, così come ambiente, paesaggio, termini che si con fondono tra ecologia. geografia, storia e cultura. Semplificando brutalmente, si considera territorio una regione le cui qualità naturali, geografiche, paesaggistiche sono un unicum con la sua storia e con la presenza umana sedimentata nel tempo: un territorio è sempre un distillato profondo del lavoro dell’uomo e delle sue comunità.
Capita che lungo le ampie curve della storia che hanno reso tali tutti i territori ad un certo punto irrompa la società industriale e il modello di sviluppo basato sui consumi: in Europa soprattutto dagli anni cinquanta del secolo scorso. Pochi decenni e l’equilibrio delle tipicità e delle “infinite sfumature” della società contadina e pastorale costruita nei millenni si disfà in un unico imbuto comune. Un paesaggio sostanzialmente artificiale fatto di industrie e città sempre più grandi, di autostrade e supermercati, di rifiuti, di consumatori affamati di beni materiali, di materie prime e di energia. Questo il paradigma economico e culturale della contemporaneità.
Così, aldilà di ogni retorica, oggi non tutti i territori posso più dirsi tali: evocare “il territorio” così come una volta si evocava “il genuino” è fuorviante, perfino falso. In mezzo ci sono stati decenni di un frenetico sviluppo e di un’economia di mercato – gli anni del boom economico e molti di quelli a seguire – che hanno trasformato per sempre vaste aree del nostro paese, dal nord al sud, cementificandone il suolo, industrializzandole, imbruttendole, inquinandole, oppure desertificandole. In molte aree del nostro paese “i territori’ sono ridotti a piccole enclave assediate da una disordinata modernità. Forse con un’unica grande parziale eccezione che da nord a sud attraversa tutto il paese, un enorme territorio reso deserto demografico dagli anni del boom economico, emarginato economicamente, diventato enorme parco naturale senza bisogno di alcun confine determinato. Nonostante questo è infatti un “territorio “in larga parte omogeneo e riconoscibile, perché loro malgrado, gli Appennini hanno conservato paesaggi umani e tradizioni che inaspettatamente possono essere un’importante risorsa culturale ed economica per un mondo che, uniformato a un solo modello, perde le sue certezze, avverte le sue fragilità e scopre di avere “fame di storie”.
Sì, questo può essere un punto: fame di storie, vale a dire un’attenzione verso il valore culturale presente in ogni consumo e specialmente in quello alimentare. Un’attenzione quest’ultima non casuale se è vero che è attraverso la scelta degli alimenti, materialmente ed immaterialmente, che diventiamo consapevoli di essere quel che siamo. Sazi di nutrimenti e calorie stiamo riscoprendo un approccio olistico del cibo, dove benessere personale, responsabilità ecologica, sentimento di appartenenza, perfino un vago sentimento di bellezza coinciderebbe nelle scelte alimentari del territorio.
Una correlazione forte a patto che del territorio sia rimasto qualcosa e non solo la “veste” residua, rabberciata e simulata di qualche comune o azienda. No, oggi non tutti i territori sono uguali e forse solo quelli rimasti esclusi negli anni del boom economico e dello sviluppo insostenibile, loro malgrado possono essere testimoni di quella continuità con il passato e con la cultura di appartenenza che cerchiamo nel territorio.
Perché proprio questo potrebbe essere lo “sfondo genuino”, il ponte e il raccordo in grado di legare città e aree interne, di dare un senso di appartenenza e continuità, di dare vita a nuove e vecchie filiere produttive verso l’umanità inurbata in cerca di certezze, come di risposte e consolazioni.
Sabato 28 Agosto a Fivizzano in provincia di Massa e Carrara ci sarà un tentativo per raccontare queste storie e per farne motivo di attrazione culturale e, in prospettiva, economica. Un convegno Ricette Immateriali, per un’idea di Lunigiana concluderà un percorso iniziato in inverno con il coinvolgimento dei docenti e degli studenti della suola dell’obbligo. Attraverso una ricerca nelle famiglie e nei 94 borghi di cui è costituito il comune sono state recuperate e segnalate le ricette tradizionali più significative. Non solo 94 borghi di cui è costituito il comune ma anche una cultura alimentare particolare e “meticcia”. di confine tra Liguria, Emilia e Toscana, E poi un percorso che vedrà coinvolta la ristorazione scolastica e soprattutto la filiera della ristorazione e dell’ospitalità. Ricette immateriali come possibile motore culturale di una nostra frammentata contemporaneità tra tradizione, sostenibilità, innovazione.
È un’esperienza pilota, quella di Fivizzano, che verrà presentata in Roma al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) nell’ambito di una più ampia riflessione sulle ricadute economiche e sociali della cultura del cibo.