Gabriele Mayer, il sarto delle dive
Il costume di scena è una consuetudine che sembra divenire sempre più rara, almeno in televisione. La sua derivazione dal latino consuetudo, con mutamento di suffisso, informa che i suoi significati sono quasi interamente inglobati dall’alone semantico dei modi di comportarsi stabiliti da abitudini, culture o norme. La parola costume compare in varie espressioni che spaziano dalla condotta morale all’abbigliamento, quest'ultimo riferito a usanze o performance teatrali e televisive. Il costume di scena – scrive Isabella Pezzini riferendosi a Pinocchio – “ha il ruolo di filo conduttore di una scelta interpretativa nel suo complesso, in particolare nel caso della trasposizione teatrale, che deve quanto più possibile rendere concreta e semanticamente densa la presenza attoriale” (corsivo mio). I costumi realizzano l’atmosfera della storia, marcano il suo spazio di pertinenza e trasformano chi recita in personaggio. Per quanto riguarda l’opera o il teatro, in teoria, il pubblico ha delle aspettative sui costumi derivanti dalle versioni più famose sedimentate nell’immaginario del senso comune, come Pinocchio col cappello a punta, Amleto con gorgiera e teschio e Madama Butterfly in kimono. Di certo i costumi rimandano a un tempo e a una cultura, ma può capitare che abbiano lo scopo opposto, cioè quello di annullare qualsiasi connotazione. Mi riferisco a una pratica sempre più comune in televisione e teatro, di cui è un valido esempio la rivisitazione di Amy Herzog del dramma di Ibsen A Doll’s House, nominato in ben sei categorie dei Tony Awards, tra cui miglior pièce teatrale, in scena al teatro Hudson di New York da marzo a giugno 2023. La mise minimale in abiti blu contemporanei di Nora, interpretata dal premio Oscar Jessica Chastain, lascia il campo libero alla ricezione della potente interpretazione, mentre l’assenza di riferimenti alla Norvegia e al tardo Ottocento convoglia un messaggio tanto attuale quanto scioccante sulla condizione femminile, che, a tratti, sembra essere invariata dai tempi di Ibsen. La mancanza di ammobiliamento del mondo finzionale di Casa di Bambola esula dalle indicazioni di Ibsen e dal copione in cui è effettivamente previsto un cambio di costume, cioè quando Nora dismette gli abiti del quotidiano e si trasforma in focosa donna mediterranea per danzare la tarantella a una festa. La contaminazione vestimentaria produce effetti sul suo animo sciogliendo con il calore mediterraneo le ultime ritrosie a affermare la sua identità. In ogni caso, Chastain interpreta la danza in modo scatenato, quasi in trance, e il mancato cambio d’abito dirige l’attenzione sui moti dell’anima, limitando i rumori accessori. Non credo che l’abbigliamento vincoli la circolazione del senso di un’opera, ma può volgere altrove l’attenzione.
Nonostante le loro forme di negazione, gli abiti di scena possono funzionare come strumenti di identificazione di una "persona pubblica" perché ne determina lo stile come modo di essere.
È un fenomeno che ha avuto un ruolo importante in televisione, dove le più grandi protagoniste sono diventate icone anche per l'impatto scenico di costumi rimasti impressi nella memoria del pubblico. Se penso alla mia limitata esperienza del varietà televisivo, mi torna in mente il mini-dress bianco ricoperto di Swarovski indossato da Heather Parisi nel 1984 per interpretare "Crilù", sigla di apertura di Fantastico 5. C'era un particolare della creazione di Luca Sabatelli che oggi contravverrebbe a diritti d'autore e etica del senso comune: il volto di Topolino al centro del sedere della soubrette. Parisi, dopo aver visto l'abito, pare abbia chiesto alla regia di iniziare con un primo piano del motivo disneyano, scelto da Sabatelli come simbolo di un mondo "fantastico". Per me quel vestito significa il sabato sera dell'infanzia. E sembra un controsenso affermarlo oggi, nel 2023 ipersensibile del non dicibile. Da piccola fan dell'universo Disney, ero contenta di vedere rappresentati i miei interessi in un programma per "grandi", ma, guardando da vicino il costume pochi giorni fa, ho compreso la sua natura controversa, almeno secondo gli standard di pensiero contemporanei. Se oggi la televisione di stato piazzasse un personaggio d'animazione sul deretano di una soubrette mentre canta una canzone sulla trasformazione da ragazzina a donna, i giornali e le home dei social media sarebbero invase da ogni tipo di sdegno. Quel costume è un bene culturale, esposto in Galleria Nazionale di Roma, insieme alle opere di Gabriele Pacchia-Mayer, sarto e costumista nella mostra "Gabriele Mayer. La misura dell'invenzione" curata da Lucia Masina con lo stesso Mayer, aperta fino al prossimo 18 giugno. La mostra raccoglie i bozzetti di Mayer e colleghi che compongono l'archivio a suo nome donato alla Galleria Nazionale, insieme ad alcuni dei più famosi costumi realizzati per teatro, cinema e televisione. La disponibilità alla condivisione di Mayer ha avuto come struttura portante l'impegno di Masina, docente di Storia dell’arte e del costume all’Accademia di Belle Arti di Roma, che da anni lavora per curare la raccolta e l’archiviazione delle sue opere in modo da valorizzare la sua “storia di lavoro” che tanto racconta delle vicende dell’industria italiana dell'intrattenimento. Visitare l'esposizione vuol dire essere catturati dal fascino dei costumi, che mantengono l'essenza, in forma di calco del corpo, di chi li ha indossati, e raccontano parti delle loro storie e di quelle interpretate. Insieme ai costumi e ai bozzetti si possono ammirare molte fotografie di scena, documenti delle fasi di lavorazione dei più grandi capolavori di cinema e teatro.
I contenuti della mostra possono essere approfonditi con il volume di Masina Gabriele Mayer. Una vita di costumi (De Luca Editori d’Arte 2023).
Gabriele Mayer, sarto e costumista dall'etica di lavoro salda, ha sempre considerato il costume di scena come uno strumento di esaltazione del corpo in funzione del personaggio da interpretare, del mondo da mettere in scena. Non serve avere un copione, la persona pubblica deve avere una forma di corpo idealizzabile differente dall’identità del retroscena.
Mayer lo impara prima da bambino, frequentando le sartorie di famiglia, e poi da giovanissimo come assistente di Piero Gherardi, che segue nel suo primo e unico progetto come regista di due serie di Caroselli per la pasta Barilla, girate tra il 1966 e il 1967 e interpretate da Mina. Il progetto per Mina prevede la rima tra corpo, spazio e performance, una connessione in tre dimensioni tradotta da particolari surreali applicati su abiti lunghi dalla silhouette classica, posizionati principalmente su scollo e maniche, come piume, ruote di tulle a pieghe, o reti tubolari. I costumi di Mina segnano lo spazio che attraversa e si ancorano al senso delle canzoni interpretate, lasciando sullo sfondo la pasta come trait d’union tra il pubblico e la possibilità di assistere all’esecuzione di un brano famoso, all’epoca non scontata come oggi.
Il corpo diventa senso per intervento dei tessuti, la cui testura completa la metamorfosi scenica. Nella "paleotelevisione" teorizzata da Umberto Eco, il linguaggio vestimentario è un'ulteriore forma di didattica della modernità, finalizzata a costruire la leggendarietà dei corpi mediali di cantanti e attrici. Un costume imponente, sfarzoso, non indossabile nel quotidiano rende solenne il momento della visione rimarcando il suo essere evento unico (o quasi). Il passaggio alla "neotelevisione" desemantizza il fattore di irripetibilità, e, piano piano, fagocita anche i costumi, non più percepiti come parte fondamentale dell'atmosfera di un programma. Difatti, per abbattere i costi o per stringere vantaggiosi accordi di partnership, nei programmi televisivi contemporanei si preferisce adattare alle occasioni capi provenienti da collezioni prêt-à-porter o alta moda (vd. Sanremo e i flussi di visualizzazioni social degli abiti). È anche un modo per essere più "simili" o vicini a chi guarda da casa.
Osservando i bozzetti esposti in Galleria Nazionale, con tanto di appunti e tasselli di tessuto campione, emerge che il processo d'ideazione tiene conto del voler essere e del poter diventare dell'artista. Il processo metamorfico avviene per ricostruzione, come se fosse un mosaico: nel bozzetto del costume per l'interpretazione del brano "Prendere o lasciare" di Raffaella Carrà, Mayer propende per tessuti elastici e aderenti, in colori fluorescenti o motivi cinesi. Qui l'esaltazione della fisicità è parallela allo status di traduttore universale del corpo dell'artista, duttile e malleabile, grado zero da plasmare a seconda delle esigenze di scena e per permettere al pubblico di comprendere il senso dello spettacolo.
Mayer diventa famoso con Pronto Raffaella (di Boncompagni, Magalli, Carrel), per cui prepara tutti gli abiti indossati da Carrà cinque giorni a settimana, balletti annessi. Il costume della prima sigla della trasmissione, "Fatalità" (1983), fortunato singolo, è rimasto nell'immaginario televisivo. In quel frangente, a Raffaella Carrà serve un capo leggero, da indossare durante una coreografia molto ritmata, capace di colpire il pubblico in quanto abito-copertina. Mayer garantisce la libertà al corpo impiegando il plissé, ottiene la semplicità "da mattina" adatta a un programma in daytime scegliendo colori vivaci impreziositi da applicazioni di Swarovski per tutelare lo status di regina della televisione.
Mayer si fa interprete di corpo e anima dell'artista, come dimostra il suo lungo sodalizio professionale con Renato Zero, che gli commissiona una ventina di costumi per ogni spettacolo. In Galleria Nazionale è esposta la giacca rossa senza colletto ricoperta da schegge riflettenti di varie misure, ideata per esprimere una crisi identitaria così forte da voler fare a pezzi gli specchi in cui si riflette la propria immagine. L'anticonformismo di Zero viene elaborato da Mayer nella parodizzazione di mise serissime, fra cui la tunica da "pastore della musica", o il frac azzurro decorato con stelle, fiocchi e cuori, o in dettagli come l'assenza del colletto della giacca-specchio, che rinnega le connotazioni formali dell'indumento. Nel complesso di consuetudini ornamentali, spesso ciò che marca davvero il costume del personaggio può diventare l'assenza di un dettaglio scontato o l'aggiunta di un elemento inaspettato.
È qui che il costumista incontra il sarto, nel mestiere della creazione.
Gabriele Mayer. La misura dell'invenzione, a cura di Lucia Masina e di Gabriele Mayer, alla Galleria Nazionale di Roma, dal 12 maggio 2023 al 18 giugno 2023.
Catalogo: Lucia Masina Gabriele Mayer. Una vita di costumi (De Luca Editori d’Arte 2023).
Fotografie di Bianca Terracciano.
In copertina, La giacca-specchio di Mayer per Renato Zero.